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«Fino a quel momento, i tentativi miravano a effettuare un atterraggio su una delle zone azzurre, relativamente più pianeggianti, perché toccar terra laggiù sembrava più semplice. Ma poi qualcuno cominciò a dirsi che la regolare perdita di tutte quelle sonde non potesse essere dovuta al caso; in qualche modo incomprensibile, doveva essere opera di qualche creatura intelligente. Per controllare questa ipotesi, fu inviata una sonda equipaggiata di ogni sorta di dispositivi di rilevamento e di ogni sistema di protezione che riuscimmo a infilarci dentro, compresa una rete di filo d’argento che copriva l’intera superficie, collegata ai generatori e capace di bloccare qualsiasi frequenza che fosse stata eventualmente usata per interferire con i comandi a distanza. Ci misero proprio tutto, vi dico. Niente di naturale, e ben poco di artificiale sarebbe stato in grado di guastare quella macchina; ma la sonda seguì la sorte di tutte le altre, non appena l’altimetro a riflessione riferì che aveva toccato la superficie.

«A quel punto il padrone dell’astronave si dichiarò vinto. Accettò come ipotesi di lavoro che nelle zone pianeggianti del pianeta abitasse una razza intelligente: una razza che non desiderava ricevere visite.

«La sonda successiva venne inviata su una delle zone più scure e più accidentate che si scorgevano esaminando il pianeta dallo spazio. Il motivo per inviarla laggiù era questo: si pensava che le creature che vivevano nelle zone pianeggianti evitassero le aree accidentate. E parve che il ragionamento fosse giusto, perché si riuscì a effettuare un atterraggio con la sonda. Sia come sia, gli strumenti dicevano che la sonda era appoggiata su una superficie, risultava impossibile farla scendere ulteriormente e rimaneva ferma al suo posto anche quando veniva spento il motore.

«La novità era incoraggiante, ma nessuno, a questo punto, sapeva cosa fare. Continuavamo a non poter vedere l’ambiente circostante, e per qualche tempo non fummo neppure sicuri che il microfono funzionasse. Decidemmo di non usare l’altoparlante, almeno per quei primi tempi. Il microfono captava un debole fischio, il cui volume variava senza alcuna sistematicità; alla fine giungemmo alla conclusione che si trattasse del vento, e non di un disturbo elettromagnetico. Inoltre, udimmo un paio di volte dei suoni rochi, secchi, assolutamente indescrivibili, che non riuscimmo mai a identificare, né allora, né poi: l’ipotesi che gode di maggiore credito è che siano i versi di qualche creatura vivente.

«Continuammo ad ascoltare quei suoni per quasi un’intera rotazione del pianeta, circa due dei nostri giorni, e non udimmo altro che un debole ronzio, suoni di sfregamento altrettanto deboli, e un tambureggiamento irregolare che forse poteva essere dato dai passi di una creatura dotata di zoccoli, i cui piedi battevano su una superficie dura. Se volete, potete ascoltare le registrazioni che abbiamo eseguito, ma vi consiglio di non essere solo, quando lo farete. Quei suoni che giungono dal nulla hanno in sé qualcosa di inquietante e di sovrannaturale.

«Dimenticavo di dire che il portello di carico della sonda si era aperto al momento dell’atterraggio, e che il vano conteneva microfoni e bilance sensibili, capaci di avvertirci nel caso che qualche creatura si spingesse; all’interno. Ma purtroppo non entrò niente: una piccola delusione, perché se laggiù c’era qualche piccola forma di vita selvatica, l’apertura le sarebbe parsa un rifugio naturale.

«Nel corso di quella prima rotazione, non udimmo niente che facesse pensare sia pure remotamente a una creatura dotata d’intelligenza, e alla fine decidemmo di mettere in azione l’altoparlante. Qualcuno studiò dei turni: si incominciava a basso volume, ripetendo un nastro continuo per un’intera rotazione del pianeta, poi lo si ripeteva per un’altra rotazione a un volume doppio, e così via, fino a raggiungere la potenza massima dell’impianto installato a bordo della sonda. Si seguì il programma a parte il fatto che il proprietario, ansioso di giungere a un risultato, ordinò di alzare il volume ogni quarto di rotazione, invece che alle scadenze previste. Uno spiritosone registrò sul nastro una poesia, e cominciammo a trasmettere.

«Come primo effetto delle nostre trasmissioni, ci fu la completa cessazione di tutti i suoni che avevamo provvisoriamente attribuito alle forme viventi. A quanto pareva, erano davvero dei piccoli animali, e nell’udire l’altoparlante erano scappati via per lo spavento. Il vento, se era veramente il vento come pensavamo, continuò senza sosta. Quando aumentammo il volume per la prima volta, udimmo una debole eco. Questo indicava che il suono dell’altoparlante, se non altro, non veniva attutito nelle vicinanze della sonda, e che se qualche essere intelligente fosse giunto a una ragionevole distanza, lo avrebbe potuto udire.

«Per farla breve, ottenemmo una risposta dopo il quarto aumento di volume. All’inizio pensammo che fosse un’eco distorta, ma divenne più forte anche quando non aumentammo più il volume, e alla fine notammo che anche i suoni erano diversi. Costituivano una serie di rumori molto complessa, e tutti noi che li ascoltammo fummo certi fin dall’inizio che fosse la voce di un essere intelligente.

«Alla fine cominciammo a udire anche un rumore di passi tra una serie e l’altra di parole di quel linguaggio alieno, cosicché pensammo bene di cessare le nostre trasmissioni. Era evidente che la creatura era ormai in grado di scoprire la presenza della sonda con altri mezzi, diversi dall’udito, perché i passi continuarono ad avvicinarsi anche dopo la cessazione delle trasmissioni. Dapprima i passi venivano interrotti ogni pochi secondi da un forte richiamo; ma alla fine la creatura raggiunse la sonda, poiché il rumore indicava che camminava attorno a essa a una distanza quasi costante. Invece dei richiami cominciò a pronunciare delle serie di parole a voce meno alta, ma più lunghe e complesse. Probabilmente quelle creature hanno una vista simile alla nostra, anche se su quel pianeta la luce è molto più debole di quella a cui noi siamo abituati.

«Dopo qualche tempo, la fotocellula posta all’interno del vano di carico indicò la presenza di un corpo che copriva gran parte della luce. Uno dei meccanici fece per chiudere il portello, ma il capo gli saltò addosso e lo cacciò fuori dalla cabina di pilotaggio. Si mise lui stesso ai comandi della sonda e cercò di imitare i suoni vocali fatti dalla creatura che non conoscevamo. E ottenne subito un risultato, non c’è che dire! A giudicare dal rumore da lui fatto, l’indigeno fu al colmo dell’eccitazione per un minuto o due; poi cominciò a emettere tutta la gamma di suoni che gli era permessa dal suo apparato vocale. Una cosa è certa: che noi non saremmo capaci di imitarli tutti.

«Questo durò per qualche tempo, e non uno di noi fece dei progressi. Naturalmente, nessuno era in grado di capire che cosa significassero i suoni fatti dall’altro. Cominciavamo a pensare che non saremmo riusciti ad avere altre informazioni sul pianeta, e che le notizie che eravamo venuti a sapere fossero prive di qualsiasi valore.

«Poi qualcuno si ricordò delle vecchie scatole da scambio. Non so se ne siate al corrente; mi pare che venissero usate prima che la nostra razza lasciasse il pianeta natale, allorché due persone che non erano in grado di parlare lo stesso linguaggio desideravano commerciare. Si tratta semplicemente di due piatti, collegati insieme, ciascuno dei quali è suddiviso in una serie di piccoli compartimenti. Uno dei piatti è vuoto, mentre i compartimenti dell’altro contengono i vari articoli posti in vendita. Ciascun compartimento pieno è chiuso da un coperchio trasparente, che però non si lascia sollevare finché non è stato messo qualcosa nel compartimento corrispondente dell’altro piatto. Bisogna che il selvaggio sia particolarmente stupido, per non capire immediatamente il meccanismo di un baratto come questo.

«Noi, naturalmente, non avevamo un dispositivo del genere, ma fu abbastanza semplice costruirne uno. L’unica difficoltà stava nel fatto che fino al ritorno della sonda non avremmo saputo che cosa era stato messo nel vassoio vuoto. Ma poiché ci interessava più la comunicazione che il baratto, al momento questo aspetto non aveva importanza. Inviammo sul pianeta la scatola da scambio servendoci di un’altra sonda: la orientammo sul segnale emesso dalla prima e ci augurammo che gli abitanti delle pianure azzurre non la scoprissero. Poi aprimmo il portello di carico della seconda sonda e aspettammo di vedere cosa sarebbe successo.