Si udì uno schianto.
— Sì, possiamo aspettare, — disse Reagan. — L’officina è partita, così, adesso, non c’è più fretta… Proprio non ce n’è più.
— Non c’era nessuno dentro?
— No, ma vado a controllare. — Si precipitò fuori della porta.
Questa è la vita su Placet. Ne avevo abbastanza; ne avevo le scatole piene. Presi la decisione mentre Reagan era fuori.
Quando rientrò era uno scheletro articolato d’un vivace azzurro.
Disse: — Tutto a posto, capo. Non c’era nessuno dentro.
— Qualcuna delle macchine… si è sfasciata?
Scoppiò a ridere. — Ce la fa a guardare un cavallo di gomma di quelli che usano sulle spiagge, a pois scarlatti, e a dirmi se è un tornio intero oppure a pezzi? Ehi, capo, lo sa che aspetto ha, adesso?
Sbottai: — Se me lo dici, sei licenziato.
Non so se stessi scherzando oppure no; avevo i nervi a fior di pelle. Aprii il cassetto della scrivania e ci ficcai dentro il ricamo del — Dio Benedica la Nostra Casa, — e tornai a chiuderlo sbattendolo. Ero stufo: Placet è una gabbia di matti, e se vi ci fermate a lungo, finite per ammattire anche voi. In media, uno ogni dieci impiegati del Centro Terrestre su Placet deve tornarsene a casa per cure psichiatriche dopo essere rimasto un anno o due su questo maledetto pianeta. Ed io ci sono da quasi tre anni. Il mio contratto era scaduto, e ormai ero deciso.
— Reagan, — dissi.
Si era diretto verso la porta. Si voltò. — Sì, capo?
Gli ordinai: — Voglio che tu spedisca un messaggio con la telescrivente al Centro Terrestre. Niente di complicato, due sole parole: Vi lascio.
Annuì: — Va bene, capo. — Uscì e chiuse la porta.
Mi afflosciai sulla poltroncina e chiusi gli occhi per pensare. L’avevo fatto. A meno che non fossi corso dietro a Reagan, ordinandogli di non spedire il messaggio, era fatta, finita e irrevocabile. In quelle cose, il Centro Terrestre è strano: per quasi tutto è di manica molto larga, ma una volta che avete dato le dimissioni, il comitato non vi lascia più cambiare idea. È una regola ferrea, e novantanove volte su cento è giustificata, quando si tratta di progetti interplanetari o intragalattici. Un uomo dev’essere entusiasta al cento per cento del suo lavoro, per poterlo fare, ma quando il lavoro gli esce dagli occhi, non ha più mordente o peggio ancora.
Sapevo che Placet stava ormai per uscire dal Campo Blakeslee, ma preferii restarmene lì con gli occhi chiusi. Non volevo aprirli e guardare l’orologio fino a quando non avessi potuto vedere l’orologio come un orologio, e non come un’altra cosa qualunque, ripugnante o anche soltanto strana. Per cui, me ne restai seduto a pensare.
Mi sentivo un po’ ferito dall’indifferenza con cui Reagan aveva accolto il mio messaggio; era stato mio buon amico per dieci anni; avrebbe potuto almeno dire che gli dispiaceva che me ne andassi. Certo, c’era una buona possibilità che lui ne ottenesse una promozione, ma anche se aveva questo, in testa, avrebbe potuto mostrarsi un po’ più diplomatico. O almeno provarci…
Oh, smettila di sentirti dispiaciuto per te stesso, mi rimproverai. Ormai l’hai fatta finita con Placet e col Centro Terrestre, e adesso tornerai presto sulla Terra, non appena ti daranno il cambio, là avrai un altro lavoro, e forse potrai rimetterti a insegnare.
Ma ugualmente, dannazione a Reagan. Era stato mio allievo al Politecnico di Terra City, e gli avevo fatto avere quel posto su Placet, un buon posto per la sua età, primo assistente dell’amministratore di un pianeta con una popolazione di quasi mille persone. Ma del resto, questo mio lavoro era anch’esso buono per uno della mia età — anch’io ne ho soltanto trentuno. Un lavoro eccellente, solo che non si poteva continuare a innalzare edifici che sarebbero subito crollati, e… Piantala di denigrarti, m’intimai. Adesso ne sei fuori. Torna sulla Terra e ricomincia a insegnare. Dimenticatene.
Ero stanco. Appoggiai la testa sulle braccia adagiate sul piano della scrivania… e mi appisolai per un paio di minuti.
Alzai gli occhi a un rumore di passi, alla porta; non erano i passi di Reagan. Sì, la qualità delle illusioni stava senz’altro migliorando. Era — o sembrava essere — una splendida testarossa. Ma non poteva esserlo, naturalmente. C’è qualche donna, su Placet, per la maggior parte mogli di tecnici, ma…
Disse: — Non si ricorda di me, signor Rand? — Sì, era una donna; la sua era una voce di donna… una voce bellissima. E mi suonava anche familiare.
— Non sia sciocca, — replicai. — Come potrei riconoscerla proprio adesso, mentre siamo nel bel mezzo del… — D’un tratto, colsi con la coda dell’occhio l’orologio dietro le sue spalle, ed era un orologio e non una corona da morto o un nido di cuculo, e d’improvviso mi resi conto che ogni altra cosa nella stanza era ritornata normale. Ciò significava che eravamo usciti dal Campo ed io non vedevo più le cose…
Il mio sguardo tornò alla testarossa. Mi resi conto che era vera. E d’un tratto la riconobbi, anche se era cambiata… cambiata in abbondanza, s’intende. Tutti i cambiamenti erano in meglio, anche se Winifred Aksho era stata una ragazza già molto graziosa quando faceva parte della mia terza classe di botanica extraterrestre al Politecnico di Terra City, quattro… no, cinque anni prima.
Allora era stata graziosa; adesso era uno splendore. Era sbalorditiva. Come mai le telechiacchiere l’avevano trascurata? Ma l’avevano trascurata, poi? Cosa ci faceva, qui? Doveva essere appena scesa dall’Ark, ma… mi resi conto che la stavo ancora fissando a bocca aperta. Mi alzai così in fretta che quasi caddi lungo disteso sopra la scrivania.
— Certo che mi ricordo di lei, signorina Aksho, — tartagliai. — Non vuole sedersi? Com’è arrivata qui? Hanno per caso mitigato i regolamenti che proibiscono i visitatori?
Lei scosse la testa, sorridendo. — Non sono un visitatore, signor Rand. Il Centro ha diffuso un annuncio in cui cercava una segretaria-tecnica per lei, io ho risposto, e hanno scelto me per questo lavoro… se lei approverà, naturalmente. Vale a dire, sono in prova per un mese.
— Magnifico, — esclamai. Ma era troppo inadeguato. Cominciai a ricamarci su: — Splendido…
Udii qualcuno schiarirsi la gola. Mi guardai intorno: c’era Reagan sulla soglia. Stavolta non uno scheletro azzurro o un mostro con due teste. Solo il semplice Reagan.
— È appena arrivata la risposta al suo telescritto, — annunciò. Attraversò la stanza e lasciò cadere il foglio di carta sulla scrivania. Ci buttai un’occhiata. Diceva: «D’accordo. 19 agosto». La mia momentanea, assurda speranza che non avessero accettato le mie dimissioni svanì come uno stormo d’uccelli in autunno. Erano stati pronti, precisi e succinti quanto me.
19 agosto… il prossimo arrivo dell’Ark. Certo non perdevano tempo — il mio o il loro. Quattro giorni!
Reagan aggiunse: — Pensavo che volesse vederlo subito, Phil.
— Già, — risposi. Lo guardai furioso. — Grazie. — Con una punta di dispetto, o magari assai più d’una punta, pensai, Be’, bello mio, non hanno affidato il lavoro a te, altrimenti la risposta l’avrebbe specificato. Manderanno un sostituto col prossimo viaggio dell’Ark.
Ma non lo dissi; la vernice di civiltà che mi rivestiva era troppo spessa. Invece, dissi: — Signorina Aksho, voglio presentarle… — Si guardarono e scoppiarono a ridere, ed io ricordai. Ma certo, Reagan e Winifred avevano fatto entrambi parte del mio corso di botanica, proprio come il fratello gemello di Winifred, Wilfrid. Solo che, naturalmente, nessuno chiamava mai i due gemelli testarossa Winifred e Wilfrid, bensì Winn e Will, per tutti gli intimi.