E poi… be’, se per allora avesse finito per provare nei miei confronti ciò che io provavo per lei, le avrei detto quant’ero stato sciocco, e quanto mi sarebbe piaciuto se lei… No, non le avrei consentito di ritornare sulla Terra con me, neppure se lei l’avesse voluto, fino a quando non avessi scorto un po’ di luce nel mio futuro nebuloso. Tutto quello che potevo dirle era che, se e quando avessi avuto l’occasione di risalire la china fino a riavere un lavoro decente… e dopotutto avevo soltanto trentun anni, e forse sarei riuscito a…
Quel tipo di cose, insomma.
Reagan mi stava aspettando nel mio ufficio, infuriato come un calabrone fradicio. Sbottò: — Quegli imbranati del Reparto Spedizioni al Centro Terrestre hanno mandato tutto a monte un’altra volta. Quelle casse con l’acciaio speciale… non lo sono.
— Non sono cosa?
— Non sono niente. Sono vuote. Qualcosa è andato storto con l’imballatrice, e non se ne sono accorti.
— Sei sicuro che quelle casse dovessero contenere proprio l’acciaio speciale?
— Sicuro che sono sicuro. Tutto il resto che c’era sull’ordine è arrivato, e la bolla di carico specificava proprio l’acciaio per quelle casse. — Si passò la mano tra i capelli arruffati. Lo facevano sembrare un terrier più del solito. Lo fissai sogghignando: — Forse è acciaio invisibile.
— Invisibile, senza peso e intangibile. Posso compilare io il messaggio per dirlo al Centro?
— Fagli pure vedere i sorci verdi, — replicai. — Però, aspetta un minuto. Faccio vedere a Winn dov’è il suo alloggio, poi vorrei parlarti un momento.
Condussi Winifred al miglior cubicolo da notte disponibile del gruppo intorno al quartier generale. Mi ringraziò di nuovo per averle promesso di cercare un lavoro per Will là sul pianeta, e tornai in ufficio col morale più sottoterra della tana d’un uccello scavatore.
— Sì, capo? — fece Reagan.
— A proposito di quel messaggio per la Terra, — gli dissi. — Voglio dire, quello che ho spedito stamattina. Non voglio che Winifred sappia niente.
Ridacchiò. — Vuol esser lei a dirglielo, eh? D’accordo. Terrò la bocca chiusa.
Commentai, con uno sforzo: — Forse sono stato sciocco a spedirlo.
— Uh? — esclamò. — Ma no. Io sono proprio contento che l’abbia spedito. Magnifica idea.
Uscì, ed io solo a prezzo d’un duro sforzo riuscii a non tirargli dietro qualcosa.
Il giorno seguente era un giovedì, sempre che il fatto abbia importanza. Lo ricordo perché fu il giorno in cui risolsi uno dei due maggiori problemi di Placet. Un momento piuttosto ironico per farlo, forse.
Stavo dettando degli appunti su certe colture indigene… Placet è importante per la Terra perché certe sue piante native, che non crescono in nessun altro luogo, producono sostanze assai importanti per la nostra farmacopea. I concetti continuavano a scivolarmi via dalla testa perché stavo osservando Winifred che prendeva appunti; aveva insistito per cominciare a lavorare già al suo secondo giorno su Placet.
E, d’un tratto, da un cielo sereno e una niente stracotta, ecco balzarmi fuori un’idea. Smisi di dettare e suonai per chiamare Reagan. Entrò.
— Reagan, — dissi, — ordina cinquemila fiale di quel condizionatore… il J-17. Digli che facciano una spedizione espresso.
— Capo, non ricorda? Abbiamo già provato quella roba. Pensavamo che potesse condizionarci a veder tutto normale anche dentro il Campo Blakeslee… ma non aveva nessun effetto sui nervi ottici. Continuavamo a vedere tutte quelle balordaggini. Va benissimo per condizionare la gente alle alte o alle basse temperature, oppure a…
— A periodi di sonno e di veglia più lunghi o più corti, — completai. — È di questo che sto parlando, Reagan. Senti, Placet, poiché ruota intorno a due soli, ha dei periodi irregolari di buio e di luce così brevi che noi non li abbiamo mai presi seriamente. Giusto?
— Certo. Ma…
— Ma dal momento che su Placet non esistono un giorno e una notte logici che noi possiamo usare, ci siamo resi schiavi di un sole così lontano che da qui non possiamo neppure vederlo. Noi usiamo un giorno di ventiquattro ore. Ma il periodo del Campo si manifesta regolarmente ogni venti ore. Possiamo usare il condizionatore per adattarci a un giorno di venti ore: otto ore di sonno e dodici svegli, con tutti pacificamente addormentati durante il periodo in cui i nostri occhi ci fanno tutti quegli scherzi. E in una stanza da letto buia così da non veder niente, neppure se ci si dovesse svegliare. Più giorni in un anno, e più brevi… e nessuno diventa più psicopatico. Dimmi cosa c’è di sbagliato in quest’idea.
Sgrana gli occhi, poi il suo sguardo diventa vacuo e si dà una gran botta in testa col palmo della mano.
— Troppo semplice, — dice, — ecco il guaio. Così maledettamente semplice che soltanto un genio poteva pensarci. Per due anni sono scivolato lentamente nella pazzia, e la risposta era così facile che nessuno riusciva a vederla. Spedirò subito l’ordine.
Fece per uscire, poi tornò a voltarsi: — E come facciamo a tener su gli edifici? Presto, finché ha ancora quelle sue facoltà divinatorie!
Scoppiai a ridere. — Perché non provi con quell’acciaio invisibile nelle casse vuote?
— Al diavolo, — esclamò, e sbatté la porta.
Il giorno dopo era mercoledì. Piantai il lavoro e accompagnai Winifred in una passeggiata turistica intorno a Placet. Un giro completo è una bella passeggiata d’un giorno intero. Ma con Winifred Aksho qualunque gita d’un giorno avrebbe significato uno splendido giorno per una gita. Salvo, naturalmente, il fatto che io sapevo che mi restava soltanto un giorno intero da passare con lei. Il mondo sarebbe finito venerdì.
Domani l’Ark avrebbe lasciato la Terra, con il carico di condizionatori che avrebbe risolto uno dei nostri più grossi problemi, e col tizio, chiunque fosse, che il Centro Terrestre avrebbe mandato a sostituirmi. Sarebbe giunta distorcendo lo spazio fino a un punto a distanza di sicurezza fuori dal sistema di Argyle I-II e da lì avrebbe compiuto l’ultimo balzo coi razzi. Venerdì sarebbe stata da noi, ed io sarei ripartito con essa. Ma mi sforzai di non pensarci.
Mi riuscì benissimo di dimenticarlo finché non fummo di ritorno al quartier generale e Reagan mi venne incontro con un sogghigno così largo che gli spaccava quel suo muso da vecchia ciabatta in due metà. Esclamò: — Capo, c’è riuscito!
— Magnifico, — risposi. — A far cosa?
— Mi ha dato la risposta su cosa usare per rinforzare le fondamenta. Ha risolto il problema.
— Sì? — dissi.
— Sì. Non è vero, Winn?
Winifred pareva perplessa quanto me. — Stava scherzando, — disse. — Ha detto di usare la roba delle casse vuote, no?
Reagan tornò a sogghignare: — Credeva di scherzare. Ma è proprio questo che useremo d’ora in poi. Niente. Senta, capo, è come la faccenda del condizionatore… cosi semplice che non ci avevamo mai pensato. Fino al momento in cui mi ha detto di usare quello che c’era nelle casse vuote, e io ci ho pensato su.
Restai lì a bocca aperta, a pensarci un attimo anch’io, e poi feci lo stesso gesto di Reagan, il giorno prima — mi diedi una pacca sulla fronte col palmo della mano.
Winifred era ancora perplessa.
— Le fondamenta vuote, — le dissi. — C’è una cosa attraverso la quale quei maledetti uccelli non volerebbero mai… è l’aria. Adesso, finalmente, potremo costruire degli edifici grandi quanto ci servono. Affonderemo nel terreno, come fondamenta, dei muri doppi, con un ampio spazio pieno d’aria in mezzo. Potremo…