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M’interruppi; non era più il caso di adoperare il — noi. — L’avrebbero fatto loro, dopo che io fossi ripartito per la Terra alla ricerca d’un nuovo lavoro.

Passò giovedì e arrivò venerdì.

Avevo lavorato fino all’ultimo, perché era la cosa più semplice da fare. Con l’aiuto di Reagan e Winifred stavo completando gli elenchi dei materiali per i nostri nuovi progetti costruttivi. Per prima cosa, un edificio di tre piani con quaranta stanze come nuovo quartier generale.

Lavoravamo in fretta, poiché mancava poco al periodo del Campo, e non si possono fare lavori burocratici quando non si può né leggere, né scrivere, ma soltanto udire e toccare.

Ma la mia mente ormai era fissa sull’Ark. Presi su il telefono e chiamai la saletta della telescrivente per chiedere notizie.

— Ci hanno appena chiamato, — m’informò l’operatore. — Sono usciti dalla distorsione, ma non sono abbastanza vicini per atterrare prima del periodo del Campo. Atterreranno subito dopo.

— D’accordo, — risposi, abbandonando ogni speranza che potessero arrivare con un giorno di ritardo.

Mi alzai in piedi e mi avvicinai alla finestra. Ci stavamo proprio avvicinando al punto di mezzo tra le due stelle. Su nel cielo, verso nord, potevo vedere Placet che stava piombandoci addosso.

— Winn, — gridai. — Vieni qui.

Lei mi raggiunse alla finestra e restammo lì a guardare. L’avevo cinta con un braccio. Non ricordavo d’avercelo messo, ma non lo tolsi e lei non si scostò.

Dietro di noi Reagan si schiarì la gola. Disse: — Darò intanto questa parte della lista all’operatore. Potrà trasmetterla subito dopo il periodo del Campo. — Uscì e si chiuse la porta alle spalle.

Winifred parve accostarsi un po’ di più a me. Stavamo entrambi guardando Placet che si precipitava verso di noi. Winifred disse: — È bello, non è vero, Phil?

— Sì, — dissi. Mi voltai, dicendolo, e la guardai in viso. Poi — non avevo avuto intenzione di farlo — la baciai.

Tornai indietro e mi sedetti di nuovo alla scrivania. Winifred disse: — Phil, cosa c’è? Non avrai mica una moglie e sei figli nascosti da qualche parte, o qualcosa di simile, non è vero? Eri scapolo, quando mi son presa una cotta per te al Politecnico… ho aspettato cinque anni per superarla, ma non ci sono riuscita, e adesso che ho potuto finalmente procurarmi questo lavoro su Placet, così da esser… insomma, devo essere io a farti la dichiarazione?

Cacciai un gemito, evitando di guardarla. Esclamai: — Winn, sono pazzo di te. Ma… proprio prima che tu arrivassi, ho mandato un telex di due parole alla Terra. Diceva: “Vi lascio”. Perciò, appunto, devo lasciare Placet con questa nave-traghetto dell’Ark, e dubito che riuscirò mai a trovare un lavoro d’insegnante, adesso che mi sono messo contro il Centro Terrestre, e…

Lei disse: — Ma, Phil! — e fece un passo verso di me.

Qualcuno bussò alla porta. Era il modo di bussare di Reagan. Per una volta fui contento dell’interruzione. Gli gridai di entrare, e lui si affacciò:

— L’ha già detto a Winn, capo? — fece.

Annuii, tetro.

Reagan sogghignò. — Bene, — commentò. — Avevo una voglia matta di dirglielo io. Sarà magnifico vedere di nuovo Will.

— Uh? — sbottai. — Will chi?

Il sogghigno sparì dal volto di Reagan. Fece: — Phil, ha perso la memoria, o cosa? Non ricorda di avermi dato la risposta a quel messaggio del Centro Terrestre, quattro giorni fa, poco prima che arrivasse Winn?

Lo fissai a bocca aperta. Non l’avevo neppure letto quel messaggio, per cui, come avrei fatto a rispondergli? Reagan era diventato del tutto pazzo, oppure lo ero diventato io… Ricordavo di averlo ficcato nel cassetto della scrivania. Aprii di scatto il cassetto e lo tirai fuori. La mano mi tremava un po’ mentre leggevo: approvata richiesta per altro assistente. chi vuole per il lavoro?

Alzai gli occhi su Reagan, e chiesi: — Stai cercando di dirmi che ho risposto a questo?

Mi fissò con un’espressione sconcertata almeno quanto la mia.

— Me l’ha detto lei, — balbettò.

— Cosa ti ho detto di trasmettere?

— Will Aksho[1]. — Mi squadrò dalla testa ai piedi. — Capo, si sente bene?

Mi sentivo talmente bene che qualcosa parve esplodermi in testa. Balzai in piedi e feci un passo verso Winifred. Farfugliai: — Vuoi sposarmi? — La presi fra le braccia, proprio un istante prima che il periodo del Campo Blakeslee si chiudesse su di noi, cosicché non potei vedere a che cosa somigliasse adesso, e viceversa lei non poté vedere me. Ma da sopra la sua spalla vedevo benissimo ciò che sembrava essere diventato Reagan. Gli intimai: — Vattene da qui, scimmione, — e l’avevo descritto alla lettera, perché adesso sembrava proprio quello, uno scimmione color giallo vivo.

Il suolo tremava sotto i miei piedi, ma stavano succedendo anche altre cose, e non mi resi conto di cosa significassero quelle violente scosse fino a quando lo scimmione non si girò di scatto, urlando: — Uno stormo di uccelli sotto di noi, capo! Uscite in fretta prima che…

Ma non riuscì a dire nient’altro, poiché in quel preciso istante l’edificio ci crollò completamente addosso, e il tetto mi picchiò sulla testa, stordendomi. Placet è una gabbia di matti… ma mi piace così.

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1

Uno dei tremendi giochi di parole di Fredric Brown, che qui è stato reso con la quasi identità di suono tra Will Aksho, il nome del fratello di Winifred, e la frase in italiano «Vi lascio». (N.d.T.)