Tom Lawson non era contento d’essere stato assegnato al Lagrange II: l’atmosfera a bordo del Lagrange non era abbastanza tranquilla per chi, come lui, voleva dedicarsi seriamente alla ricerca scientifica. In bilico lassù tra la Terra e la Luna, impegnato in un numero di equilibrismo cosmico reso possibile da una delle più oscure conseguenze della legge della gravitazione universale, il satellite era una specie di domestica tuttofare astronautica. Le spaziali in transito nelle due direzioni lo usavano come un ufficio telegrafico per smistare i loro messaggi, benché non fosse assolutamente vero che ci si fermassero a prendere i sacchi postali. Inoltre il Lagrange fungeva anche da relais per quasi tutto il traffico radio lunare, poiché ai propri piedi aveva, per così dire, l’intera faccia della Luna rivolta verso la Terra.
Il telescopio installato sul Lagrange per l’osservazione di oggetti che si trovavano miliardi di volte più lontani della Luna, era lo strumento ideale per una ricerca come quella che ora gli era stata affidata. A una distanza così breve, ogni minimo particolare inquadrato dalla lente di cento centimetri spiccava con straordinaria nitidezza. Tom aveva la sensazione di essere sospeso nello spazio immediatamente al di sopra del Mare delle Piogge. Sebbene avesse solo una conoscenza sommaria della geografia lunare, poteva riconoscere al primo sguardo i grandi crateri Archimedes e Plato, Aristillus ed Eudoxus, la scura cicatrice della Vallata delle Alpes, e la piramide solitaria di Pico che proiettava la sua lunga ombra sulla pianura.
Ma le regioni illuminate non lo riguardavano; ciò che doveva cercare si trovava nella parte oscura, dove il sole non si era ancora levato. Sotto un certo aspetto, questo facilitava il suo compito. Un segnale luminoso, fosse pure una lampadina tascabile, sarebbe stato più facilmente visibile nella zona oscura. Tom controllò le coordinate della carta e manovrò alcuni pulsanti. Le montagne incendiate dal sole slittarono via dal suo campo visivo, e non rimasero che le tenebre, mentre Tom frugava la notte lunare che aveva appena inghiottito più di venti persone tra uomini e donne.
Dapprima non vide nulla, o almeno nessuna luce di segnalazione che proiettasse il suo appello verso le stelle. Poi, via via che i suoi occhi diventavano più sensibili, si accorse che quella zona non era completamente buia. Baluginava di una fosforescenza spettrale, il chiarore terrestre, e più guardava, più i particolari si precisavano.
Ecco là le montagne a est del Golfo delle Iridi, in attesa dell’alba che tra poco le avrebbe raggiunte. E più in là… cos’era quella stella che scintillava nel buio?
Le sue speranze si accesero, ma subito tornarono a spegnersi. Erano solo le luci di Porto Roris, dove in quello stesso momento attendevano con ansia i risultati delle sue ricerche.
Nel giro di pochi minuti Tom Lawson si convinse che era inutile continuare quel tipo di ricognizione visiva. Non c’era la minima probabilità di scorgere un oggetto appena più grande di un autobus, sperso laggiù in quel paesaggio vagamente luminescente.
Di giorno, sarebbe stata un’altra cosa; avrebbe potuto individuare subito il Selene, grazie alla sua ombra lunghissima proiettata sul mare di polvere. Ma l’occhio umano non era abbastanza sensibile per condurre quelle ricerche alla pallida luce della Terra, soprattutto da un’altezza di cinquantamila chilometri.
Ma non c’era da preoccuparsi; Lawson non si era certo illuso di vedere qualcosa, in quella prima rapida perlustrazione. Già da un secolo e mezzo gli astronomi non avevano più bisogno di contare unicamente sulla propria vista; oggi avevano mezzi ben più precisi: un’intera serie di amplificatori di luce e di rivelatori di radiazioni. Uno di questi strumenti, Tom Lawson ne era certo, sarebbe riuscito a trovare il Selene.
Non sarebbe stato tanto sicuro del fatto suo, se avesse saputo che il Selene non si trovava più sopra la superficie della Luna.
Quando il Selene si arrestò, equipaggio e passeggeri erano ancora troppo stravolti per parlare. Il capitano Harris fu il primo a riaversi, forse perché era l’unico che avesse idea di ciò che era avvenuto.
Era un cedimento del terreno, naturalmente; non erano rari, sebbene nel Mare della Sete non ne fossero mai stati registrati. Giù, nelle profondità della Luna, era franato qualcosa; forse lo stesso peso infinitesimale del Selene aveva accelerato il fenomeno. Harris si alzò ancora tremante dal suo posto, domandandosi in che modo si poteva comunicare la notizia ai passeggeri. Certo non poteva dichiarare allegramente che tutto era sotto controllo, e che tra cinque minuti si sarebbero rimessi in viaggio; d’altra parte, se avesse rivelato tutta la gravità della situazione, non avrebbe fatto altro che diffondere il panico. Prima o poi la verità andava detta, ma per il. momento l’essenziale era di mantenere la calma.
Incontrò lo sguardo di Sue Wilkins, in piedi in fondo alla cabina, alle spalle dei passeggeri che aspettavano ansiosi. Sue era pallidissima, ma assolutamente padrona di sé; Pat sapeva di poter contare su di lei.
«A quanto pare, siamo ancora tutti interi» cominciò a dire, con la massima disinvoltura possibile. «Come avrete forse notato, abbiamo avuto un piccolo incidente, ma poteva andare peggio. («E come?» si domandò mentalmente. «Be’, lo scafo avrebbe potuto cedere… già, così invece prolunghiamo l’agonia, eh?» Poi, con uno sforzo, troncò il monologo interiore). C’è stato un cedimento improvviso del suolo… un lunamoto, se preferite, e noi ci siamo cascati in pieno. Comunque, non è il caso di allarmarsi; anche se non possiamo tornare con i nostri mezzi, Porto Roris ci manderà soccorsi al più presto. Nel frattempo, siccome la signorina Wilkins stava per servire i rinfreschi, vi consiglio di mettervi tranquilli intanto che io… ehm… prendo le misure del caso.»
Pareva che l’avessero presa bene. Con un sospiro di sollievo, Pat fece per tornare al quadro di comando. In quell’attimo, notò che uno dei passeggeri stava per accendere una sigaretta.
Era una reazione automatica, un gesto che lui stesso avrebbe voluto fare. Non disse niente, per non guastare l’atmosfera che il suo discorsetto era riuscito a creare, ma fissò il passeggero quanto bastava perché l’altro capisse. Prima che Harris raggiungesse il suo posto, la sigaretta era stata spenta.
Mentre accendeva la radio, Pat sentì il brusio delle conversazioni che si levavano alle sue spalle. Dal tono delle voci si indovinavano espressioni di irritazione, di eccitazione, perfino di divertita meraviglia… ma non, per il momento, di paura. Forse nessuno di quelli che parlavano si era ancora reso conto della gravità della situazione; gli altri tacevano.
E taceva anche l’etere. Pat passò in rassegna tutte le lunghezze d’onda, ma l’unica cosa che riusciva a captare era il lieve crepitio della polvere sotto la quale erano sepolti. Se l’aspettava, del resto; quella sostanza infernale, col suo alto contenuto metallico, formava uno scudo d’isolamento quasi perfetto. Non avrebbe lasciato passare né suoni né onde radio; tentare di trasmettere era lo stesso che urlare dal fondo di un pozzo completamente riempito di piume.
Pat spostò il segnale sulla lunghezza d’onda ad altissima frequenza che veniva usata solo nei casi disperati: avrebbe lanciato un S.O.S. a intervalli regolari. Forse sarebbe riuscito a passare, ma era poco probabile. Chiamare Porto Roris era assolutamente inutile, e i suoi tentativi infruttuosi sarebbero riusciti solo a spaventare i passeggeri. Lasciò il contatto ricevente in funzione sulla lunghezza d’onda assegnata al Selene, ma sapeva che non sarebbe giunta risposta. Nessuno poteva sentirli, nessuno poteva comunicare con loro. Per ciò che li riguardava, era come se la razza umana fosse completamente scomparsa.
Pat non perse tempo a meditare su quell’inconveniente; se l’era aspettato, e restavano tante altre cose da fare. Con la massima attenzione, controllò tutti gli strumenti e i contatori. Ogni cosa sembrava normale, salvo che la temperatura era lievemente aumentata. Anche questo era da prevedersi, ora che la polvere li isolava dal freddo dello spazio.