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10

A duecentosettanta miglia al di sopra della Terra, «Beta» stava facendo il suo terzo giro del globo. Costeggiando l’atmosfera come un piccolo satellite, completava una rivoluzione ogni novanta minuti. Se il pilota non avesse riacceso i motori sarebbe rimasta lì per sempre alle frontiere dello spazio.

Eppure «Beta» era una creatura dell’alta atmosfera più che delle profondità dello spazio. Come quei pesci che, qualche volta, arrancano fino alla riva, essa si stava avventurando fuori del suo vero elemento e le sue grandi ali ora erano inutili teli di metallo rovente sotto il sole violento. E non sarebbero servite fino a quando non fosse tornata nell’aria molto più sotto.

Fissata sulla parte posteriore della «Beta» c’era una torpedine affusolata che, a un primo sguardo, avrebbe potuto essere scambiata per un altro razzo. Invece non aveva oblò di osservazione, non aveva ugelli di motore, non recava traccia di carrello d’atterraggio. La sagoma sottile di metallo non aveva quasi alcun rilievo, come una bomba gigantesca in attesa di essere sganciata. Era il primo dei contenitori di combustibile per l’«Alpha» e pieno di tonnellate di metano, che sarebbero state pompate nei serbatoi della nave spaziale quando essa fosse stata pronta a compiere il suo viaggio.

La «Beta» sembrava sospesa, immobile, contro il cielo color ebano, mentre la Terra ruotava sotto di essa. I tecnici a bordo della nave, intenti a controllare gli strumenti e a riferire i dati alle basi di controllo sul pianeta sottostante, non avevano una particolare fretta. Per loro faceva poca differenza girare attorno alla Terra una o dozzine di volte. Sarebbero stati nella loro orbita fino a che non fossero stati completamente soddisfatti dei testa meno che, come aveva notato l’ingegnere capo — non fossero stati costretti a scendere prima per mancanza di sigarette.

Ora minuscole nuvole di gas fuoriuscivano lungo la linea di contatto tra la «Beta» e il serbatoio del combustibile che le stava sopra. I bulloni esplosivi erano stati tranciati: molto lentamente, a pochi centimetri al minuto, il grande serbatoio cominciò ad allontanarsi lentamente dalla nave.

Nello scafo della «Beta» si aprì un portello e due uomini fluttuarono all’esterno con le loro tute spaziali rigide. Mentre piccoli sbuffi di gas uscivano dai sottili cilindri, si diressero verso il serbatoio che si stava allontanando e presero a ispezionarlo attentamente. Uno dei due aprì un minuscolo portello e prese a far rilevazioni mentre l’altro iniziava a controllare lo scafo con un rilevatore di fuga portatile.

Per circa un’ora non apparve altro, a parte alcuni sbuffi occasionali di vapore che fuoriuscivano dai getti di guida ausiliari della «Beta». Il pilota la stava facendo ruotare in modo che puntasse contro il proprio movimento orbitale e, chiaramente, eseguiva la manovra con calma. Ora tra la «Beta» e il serbatoio di combustibile che si era portato dalla Terra c’erano circa cento piedi. Era difficile rendersi conto che durante la loro lenta separazione i due corpi avevano quasi fatto un giro della Terra.

Gli ingegneri in tuta avevano finito il proprio compito.

Lentamente tornarono alla nave in attesa e il portello si chiuse nuovamente alle loro spalle. Seguì un’altra lunga pausa, mentre il pilota aspettava l’esatto momento in cui cominciare a frenare.

Improvvisamente, dalla poppa della «Beta» schizzò una scia di incandescenza insopportabile. I gas al calor bianco sembravano formare una barra di luce solida. Quando i motori avessero cominciato a dare la spinta, gli uomini a bordo avrebbero ripreso il peso normale. Ogni cinque secondi la «Beta» perdeva cento miglia orarie di velocità. Stava uscendo dalla propria orbita e presto sarebbe ricaduta sulla Terra.

L’intollerabile fiamma dei razzi atomici lampeggiò e si spense.

Di nuovo i piccoli getti di controllo sputacchiarono vapore: ora il pilota aveva fretta mentre faceva di nuovo girare la nave attorno al suo asse. Fuori, nello spazio, un orientamento era buono come un altro — ma, entro pochi minuti, la nave sarebbe entrata nell’atmosfera e doveva essere puntata nella direzione del suo movimento.

L’attesa del primo contatto con la Terra sarebbe sempre stata un momento di tensione. Per gli uomini che si trovavano a bordo esso arrivò sotto forma di una lieve ma irresistibile tensione delle cinghie che li tenevano legati alle poltrone. Lentamente aumentò minuto per minuto, fino a che si udì il lievissimo rumore frusciante penetrare attraverso le pareti isolanti.

Stavano scambiando l’altitudine con la velocità — velocità che potevano perdere solo per la resistenza dell’aria. Se lo scambio fosse avvenuto troppo in fretta, le ali massicce si sarebbero spaccate, lo scafo si sarebbe trasformato in metallo fuso e la nave sarebbe piombata come una meteora rovinosa per centinaia di miglia di cielo.

Le ali avevano ripreso a vibrare nell’aria rarefatta che scorreva dietro di loro a diciottomila miglia orarie. Anche se le superfici di governo erano per il momento inutili, presto la nave avrebbe risposto pigramente ai loro comandi. Pure senza l’uso dei suoi motori, il pilota avrebbe potuto scegliere un punto di atterraggio quasi in qualsiasi zona della Terra. Stava portando un aliante ipersonico la cui velocità gli aveva fornito un raggio grande quanto il mondo intero.

Molto lentamente la nave stava assestandosi nella stratosfera e perdeva velocità di minuto in minuto. A poco più di mille miglia orarie le prese d’aria dinamica degli statoreattori furono aperte e le fornaci atomiche presero a luccicare di una vita micidiale. Scie di aria bruciante fuoriuscivano dagli ugelli, e in quella scia la nave stava lasciandosi dietro il familiare color rosso-marrone dell’ossido d’azoto. Stava di nuovo viaggiando nell’atmosfera, saldamente sotto controllo, e poteva ancora una volta dirigersi verso casa.

Il test finale si era concluso. A quasi trecento miglia più in alto, passando dalla notte al giorno ogni quaranta minuti, il primo serbatoio di combustibile ruotava nella sua eterna orbita.

Entro pochi giorni i suoi compagni sarebbero stati lanciati nella stessa rotta con gli stessi mezzi. Sarebbero stati uniti in attesa del momento in cui avrebbero riversato il loro contenuto nei serbatoi vuoti dell’«Alpha» per spedire la nave spaziale nel suo viaggio verso la Luna.

11

Come diceva Matthews, il «Dipartimento di Pubblicità in Negativo» finalmente si era messo in marcia — e una volta avviato acquistò rapidamente la massima velocità. Il lancio riuscito del primo contenitore di combustibile e il ritorno senza incidenti della «Beta» dimostravano che tutto quello di cui si poteva avere il controllo funzionava alla perfezione.

L’equipaggio, che ora aveva finito l’addestramento, tra qualche giorno sarebbe partito per l’Australia, cosicché l’esigenza della segretezza non c’era più.

A Southbank, man mano che arrivavano i rapporti della Stampa riguardanti la prima visita alla «nursery», la mattinata assumeva un tono di grande allegria. I collaboratori scientifici dei grandi quotidiani avevano come al solito pubblicato resoconti ragionevolmente precisi: ma i giornali di minor rilievo, che avevano inviato cronisti sportivi, critici teatrali o chiunque avevano avuto sottomano, avevano pubblicato storie davvero meravigliose. Matthews trascorse la maggior parte della giornata in uno stato di allegria mista a mortificazione, lanciando un fuoco di sbarramento telefonico genericamente in direzione di Fleet Street. Dirk lo avvertì che sarebbe stato saggio tener da parte quasi tutta l’indignazione in attesa dell’arrivo dei rapporti della stampa transatlantica.

Hassell, Leduc, Clinton, Richards e Taine divennero subito il bersaglio di una curiosità quasi senza precedenti. La storia della loro vita (attentamente diffusa in ciclostile dal settore Pubbliche Relazioni) fu subito pubblicata a puntate sui giornali di tutto il mondo. Proposte di matrimonio cominciarono a piovere da ovunque, calando imparzialmente sugli sposati e sugli scapoli. Lettere imploranti arrivarono pure a iosa: come Richards osservò in tono asciutto: «Tutti, a eccezione degli agenti assicurativi, vogliono venderci «qualcosa»».