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Dirk esaminò la stanza con un interesse più che superficiale.

Era la tipica stanza da disegno, con un tavolo illuminato dall’interno che occupava un intero angolo. Le pareti erano coperte da grafici elaborati e oscuri, intervallati da fotografie di razzi che si staccavano dal suolo spettacolarmente diretti verso luoghi remoti. Un posto d’onore era stato dato a una magnifica veduta della Terra da un’altezza di almeno mille miglia. Dirk si disse che doveva essere stata tratta dal film che Matthews gli aveva mostrato. Sulla scrivania di Collins c’era una foto di genere completamente diverso: il ritratto di una ragazza molto carina che lui ebbe l’impressione di aver visto un paio di volte a pranzo. Collins notò il suo interesse; visto che non diede spiegazioni, Dirk pensò che non fosse sposato e che, come lui, fosse uno scapolo ottimista.

«Suppongo» disse l’altro «abbiate visto il nostro film «Strada per lo Spazio!»»

«Sì. Mi è parso bellissimo.»

«Fa risparmiare un mucchio di chiacchiere e spiega molto chiaramente alcune idee di base. Ma ora, naturalmente, è abbastanza superato e io penso che voi siate ancora molto all’oscuro degli ultimi sviluppi, in particolare riguardo alla propulsione atomica della «Prometheus»»

«E’ vero» confermò Dirk. «Per me è un mistero totale.»

Collins gli fece un sorriso un po’ stupito.

«Questo ci sconcerta un po’«si lamentò. «Da un punto di vista tecnico è molto più semplice del motore a combustione, che tutti capiscono benissimo. Ma, per chissà quale ragione, la gente dà per scontato che la propulsione atomica debba essere incomprensibile, e quindi non fa il minimo sforzo per capirla.»

«Io lo farò» ribatté Dirk ridendo. «A voi il resto. Ma, per favore, ricordate che voglio solo sapere quanto basta per riuscire a seguire quello che succede. Non intendo diventare un progettatore di navi spaziali.»

13

Per trent’anni il mondo era andato lentamente crescendo nella persuasione che un giorno gli uomini avrebbero raggiunto i pianeti. Le profezie dei primi pionieri dell’astronautica si erano avverate tante volte, da quando i primi razzi avevano raggiunto la stratosfera, che pochi ormai si dimostravano increduli a questo riguardo. Il piccolo cratere vicino ad Aristarchus e i filmati televisivi dell’altra faccia della Luna erano conseguimenti innegabili.

Eppure c’era stato qualcuno che li aveva deplorati e anche denunziati. Per l’uomo della strada il volo interplanetario era ancora qualcosa di enorme e un po’ terrificante, appena poco sotto l’orizzonte della vita quotidiana. La gente fino a quel momento non aveva particolari sentimenti riguardo al volo spaziale, tranne la vaga consapevolezza che la «Scienza» lo avrebbe reso realtà in un futuro indefinito.

Tuttavia, due distinti tipi di mentalità avevano invece preso l’astronautica molto seriamente, anche se per motivi diversissimi. L’impatto praticamente simultaneo che il razzo a lungo raggio e la bomba atomica avevano avuto sulla mente dei militari degli anni Cinquanta aveva prodotto una gran quantità di profezie raccapriccianti da parte degli esperti in assassinio meccanizzato. Per alcuni anni si era parlato molto di basi lunari o anche — più appropriatamente — marziane. La tardiva scoperta da parte dell’esercito degli Stati Uniti, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, del progetto di costruire basi spaziali fatto vent’anni prima da Oberth, aveva riattizzato idee che chiamare «alla Wells» significava sottovalutare molto.

Nel suo trattato più importante, «Wege zur Raumschiffahrt», Oberth aveva parlato della costruzione di grandi «specchi spaziali» che avrebbero potuto far convergere la luce solare sulla Terra, con scopi pacifici o con l’intento di incenerire città nemiche. Egli stesso non aveva mai preso molto sul serio quest’ultima idea e molti erano rimasti sorpresi due decenni dopo quando era stata solennemente accolta.

Il fatto che sarebbe stato oltremodo facile bombardare la Terra dalla Luna e molto difficile attaccare la Luna dalla Terra aveva indotto molti disinibiti esperti militari a dichiarare che, per il bene della pace, proprio i loro Paesi dovevano conquistare il nostro satellite prima che lo facesse qualche altro rivale dalle intenzioni bellicose. Tali argomentazioni furono molto comuni nel decennio successivo allo sganciamento della bomba atomica ed erano un tipico sottoprodotto della paranoia politica di quel periodo. Man mano che il mondo tornava alla sanità mentale e all’ordine, morirono senza che alcuno le rimpiangesse.

Una seconda e forse più importante corrente d’opinione, mentre ammetteva che il viaggio interplanetario era possibile, vi si opponeva per motivazioni mistiche o religiose. Secondo l’«opposizione teologica», come veniva di norma definita, l’uomo, se si fosse allontanato troppo dal proprio mondo, avrebbe disobbedito a qualche editto divino. Secondo una frase di uno dei primi e più brillanti critici dell’Interplanetary, il rettore dell’Università di Oxford, C.S. Lewis, le distanze astronomiche erano «una disposizione da quarantena» data da Dio.

Se l’uomo le avesse superate, sarebbe stato colpevole di qualcosa di non molto lontano dalla blasfemia.

Dal momento che queste tesi non si basavano sulla logica, erano assolutamente inconfutabili. Di tanto in tanto l’Interplanetary aveva provato a controbatterle, facendo notare che le stesse obiezioni avrebbero benissimo potuto essere poste a tutti gli esploratori che erano esistiti fino ad allora. Le distanze astronomiche che l’uomo del ventesimo secolo poteva superare in pochi minuti con le onde radio erano una barriera inferiore a quella che dovevano essere apparsi i grandi oceani ai suoi antenati dell’età della pietra. Senza dubbio, in tempi preistorici, ci doveva essere stato qualcuno che aveva scosso la testa e profetizzato il disastro, allorché i giovani della tribù erano andati alla ricerca di nuove terre nel terrificante e sconosciuto mondo che li circondava. Ma era un bene che la ricerca fosse stata fatta prima della discesa travolgente dei ghiacciai dal Polo.

Un giorno i ghiacciai sarebbero tornati, e questa era la minore delle condanne che potevano abbattersi sulla Terra prima che essa avesse portato a termine la sua corsa. Alcune di tali condanne potevano solo essere ipotizzate, ma almeno una era quasi sicuramente in attesa, negli anni a venire.

Arriva un momento nella vita di ogni stella in cui il delicato equilibrio delle sue fornaci atomiche deve saltare, in un modo o in un altro. Nel lontano futuro i discendenti dell’uomo potrebbero trovarsi a vedere, dal punto sicuro in cui si trovassero su altri pianeti l’ultimo bagliore del loro pianeta natio mentre sprofonda tra le fiamme del detonante Sole.

Un’obiezione al volo spaziale che questi critici portavano avanti era all’apparenza più convincente. Dal momento che l’uomo, sostenevano, aveva causato tanta infelicità sul suo mondo, ci si poteva fidare che si sarebbe comportato bene su altri mondi? E, soprattutto, l’infelice storia della conquista e della riduzione in schiavitù di una razza da parte di un’altra si sarebbe ripetuta senza fine e perennemente, quando la cultura umana si fosse estesa da un mondo all’altro?

Contro questa obiezione non ci poteva essere alcuna risposta del tutto convincente: solo uno scontro di fedi contrastanti — l’antico conflitto tra pessimismo e ottimismo, tra coloro che credevano nell’Uomo e quelli che non vi credevano. Però gli astronomi avevano dato un contributo al dibattito, sottolineando la falsità dell’analogia storica. L’uomo, la cui civiltà aveva occupato solo un periodo equivalente a un milionesimo della vita del pianeta, probabilmente non avrebbe trovato su altri mondi razze abbastanza primitive da poter sfruttare o rendere schiave.

Qualunque nave si fosse apprestata ad attraversare lo spazio con l’idea di costruire un impero interplanetario, avrebbe potuto trovarsi alla fine del viaggio con le stesse speranze di conquista di una flotta di canoe da guerra piene di selvaggi che entrasse lentamente nel porto di New York.