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Pur se il razzo a propulsione atomica ha richiesto più tempo del previsto prima di diventare una realtà effettiva, prove a piena potenza su prototipi al suolo sono già state effettuate fin dal 1964. I modelli in grado di muoversi nello spazio saranno pronti al momento in cui saranno necessari per affrontare il volo su Marte.

In questo mio racconto io ho anticipato nella finzione il ricorso alle tecniche degli appuntamenti orbitali e in particolare, il reimpiego dei «boosters», cioè dei razzi vettori da lanciarsi e rilanciarsi più volte. La mia fantasia non è riuscita a immaginare veicoli del costo di milioni di dollari, come il modulo lunare e il razzo vettore «Saturno 5», destinati l’uno e l’altro a essere eliminati dopo una singola missione. E tuttavia il futuro del volo spaziale poggia su concetti simili a quelli qui descritti: la politica, e non l’economia, hanno dato forma ai sistemi attuali, e la storia non tarderà molto a lasciarseli dietro le spalle.

Le blande canzonature che avevo indirizzate al defunto dottor Clive Staples Lewis portarono in un secondo tempo a un’amichevole corrispondenza epistolare e a un incontro diretto che avvenne nel famoso Eastgate pub di Oxford, nel corso del quale Val Cleaver e io tentammo di dimostrare al dottor Lewis (e al suo collega, professor J.R.R. Tolkien) quanto inverosimile fosse il convincimento che attribuiva a ogni aspirante astronauta disposizioni malevole simili a quelle del Weston di «Out of the Silent Planet» (traduzione italiana «Lontano dal pianeta silenzioso»). Lewis finì con l’indursi a un volonteroso compromesso considerando che, se pur pessimi soggetti, quali probabilmente eravamo, il mondo tuttavia sarebbe stato un luogo d’insopportabile uggia se ogni essere umano fosse stato buono.

Per quanto sia ben consapevole che ogni propaganda è nemica dell’arte, sono tuttavia orgoglioso del fatto che il tema principale di questa narrazione è il proposito di mostrare quanto assurda sia la volontà di trasferire oltre i limiti della nostra atmosfera le rivalità nazionali. Nel 1947 riassunsi questo concetto nella frase: «Non porteremo frontiere nello spazio». Esattamente venti anni dopo, il Trattato sullo Spazio dell’ONU vietava qualunque forma di rivendicazione nazionale sui corpi celesti.

Il trattato fu firmato molto tempestivamente. Solo due anni dopo, Neil Armstrong ed Edwin Aldrin avrebbero scoperto la targa su cui era dichiarato:

Qui uomini provenienti dal pianeta Terra

misero piede per la prima volta sulla

Luna, nel luglio 1969.

Siamo venuti con sentimenti di pace a

nome dell’umanità tutta.

Il preludio è ormai finito. L’atto principale sta per cominciare. E dunque, strizzando amichevolmente l’occhio a Marte, mettiamo in prospettiva Giove…

New York 4 agosto 1969.

Arthur C. Clarke.

1

Dirk Alexson mise giù il libro e salì la corta rampa che portava al ponte di osservazione. Era ancora troppo presto per vedere la terra, ma l’approssimarsi della fine del viaggio lo aveva reso irrequieto e incapace di concentrarsi. Si avvicinò agli stretti e ricurvi finestrini che si aprivano sul bordo di attacco della grande ala e guardò giù all’oceano informe.

Non c’era assolutamente nulla da vedere: da quell’altezza anche la più poderosa tempesta atlantica sarebbe stata invisibile.

Osservò per un po’ il grigiore uniforme sottostante, poi si avvicinò allo schermo radar a disposizione dei passeggeri.

La linea di luce rotante sullo schermo aveva cominciato a segnalare i primi deboli echi all’estremità del suo raggio. La terra era lì, avanti, a dieci miglia sotto e a duecento miglia di distanza — quella terra che Dirk non aveva mai visto, sebbene a volte fosse per lui più reale del paese in cui era nato. Da quelle rive ora invisibili, più di quattrocento anni prima, i suoi antenati erano partiti verso il Nuovo Mondo alla ricerca di libertà o di fortuna. Ora lui stava ritornando, stava attraversando in meno di tre ore le vastità sulle quali essi avevano faticato per diverse, stremanti settimane. E veniva in una missione che essi, neppure nelle loro più sfrenate fantasie, avrebbero mai immaginato.

L’immagine luminosa del Land’s End si era spostata a metà dello schermo radar quando Dirk riuscì a intravedere la linea costiera che avanzava, una striscia scura che quasi si perdeva nelle brume dell’orizzonte. Sebbene non avesse avvertito alcun mutamento di direzione, sapeva che l’aereo di linea ora aveva iniziato la lunga discesa verso l’aeroporto di Londra, a quattrocento miglia di distanza. In pochi minuti avrebbe udito di nuovo, debole ma infinitamente rassicurante, il sibilo rombante dei grandi getti allorché l’aria attorno a lui si fosse ispessita e avesse portato nuovamente alle sue orecchie la loro musica.

La Cornovaglia era una macchia grigia che scompariva dietro di loro troppo in fretta perché se ne potessero vedere i dettagli.

Per quello che era visibile da lì, re Marco sarebbe potuto essere ancora laggiù, sulle impietose rocce in attesa della nave che avrebbe portato Isotta, e Merlino intento a parlare con i venti e a pensare al proprio destino. Da quell’altezza la terra avrebbe avuto lo stesso aspetto di quando i muratori avevano messo l’ultima pietra alle mura di Tintagel.

Ora l’apparecchio stava abbassandosi verso un panorama nebuloso così bianco e abbacinante da far male agli occhi. In un primo momento era sembrato rotto solo da piccole, lievi ondulazioni, ma ora, mentre si levava verso di lui, Dirk si rese conto che le montagne di nubi sottostanti erano di dimensioni himalaiane. Un attimo dopo i picchi erano sopra di lui e l’aereo stava attraversando un enorme passaggio fiancheggiato su entrambi i lati da imponenti pareti di neve. Sbatté involontariamente le palpebre nel vedersi venire addosso quelle bianche scogliere e poi si rilassò quando le nuvole li ebbero circondati tutti e lui non vide più nulla.

Lo strato doveva essere stato molto spesso perché aveva appena colto un bagliore di Londra quando avvertì lo choc smorzato dell’atterraggio. Poi i rumori del mondo esterno gli irruppero nella mente — le voci metalliche degli altoparlanti, lo sbattere dei portelli e, al di sopra di tutto questo, l’attutirsi del frastuono delle grandi turbine prima che si fermassero lentamente.

Il cemento bagnato, i veicoli in attesa e le grigie nubi basse cancellarono l’ultima impressione di avventura romanzesca.

Piovigginava e, quando un trattore ridicolmente piccolo trascinò via il grande veicolo, i suoi fianchi luccicanti lo fecero sembrare una creatura dei mari profondi piuttosto che dei cieli aperti. Dagli alloggiamenti dei getti salivano piccole folate di vapore mentre l’acqua scivolava sull’ala.

Con suo grande sollievo, Dirk trovò qualcuno ad accoglierlo alla barriera dei passeggeri. Dopo che il suo nome fu controllato sulla lista dei passeggeri, un uomo robusto e di mezza età gli andò incontro con la mano protesa.

«Dottor Alexson?» Felice di conoscervi. Mi chiamo Matthews. Vi accompagno al Quartier Generale a Southbank; devo occuparmi genericamente di voi durante il vostro soggiorno a Londra.»

«Mi fa piacere sentirvelo dire» disse sorridendo Dirk. «Suppongo di dover ringraziare McAndrews di questo, vero?»

«Vero. Io sono l’assistente alle Pubbliche Relazioni. Ecco, date a me il bagaglio. Useremo la metropolitana; è il mezzo più veloce — e il migliore, dal momento che permette di raggiungere il centro della città senza doversi fare tutta la periferia.

Però c’è un inconveniente.»

«E quale sarebbe?»

Matthews sospirò.

«Sareste sorpreso se vi dicessi quanti sono i visitatori che, dopo aver attraversato sani e salvi l’Atlantico, scompaiono nell’underground per non essere mai più rivisti.»

Matthews non aveva affatto sorriso nel dare questa poco probabile notizia. Come Dirk avrebbe avuto modo di scoprire, il suo malizioso senso dell’umorismo sembrava accompagnarsi a una totale incapacità di ridere. Una combinazione assolutamente sconcertante.