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L’incontro di Dirk con il professor Maxton e con Raymond Collins segnò una inconsapevole svolta nel suo pensiero e addirittura nel suo modo di vivere. Aveva l’impressione, forse sbagliata, di aver trovato la fonte delle idee che McAndrews e Matthews gli avevano passato di seconda mano.

Nessuno avrebbe potuto essere più diverso dal freddo e spassionato scienziato dei romanzi di quanto lo fosse il Vice Direttore Generale. Non solo era un valentissimo ingegnere, ma era anche del tutto conscio dell’importanza del suo lavoro.

Sarebbe stato affascinante scoprire i motivi che avevano portato lui e i suoi colleghi a occuparsi di quelle ricerche. Per quel che Dirk aveva visto, non sembrava probabile che la motivazione fosse il potere personale. Bisognava guardarsi dalle illusioni, ma questi uomini sembravano essere animati da un disinteresse personale che scaldava il cuore. L’Interplanetary era mossa da uno zelo missionario che la competenza tecnica e il senso dell’umorismo avevano salvato dal fanatismo.

Dirk era consapevole solo in parte degli effetti che il nuovo ambiente in cui era capitato avevano sul suo carattere. Stava perdendo molta della propria diffidenza; l’idea di incontrare sconosciuti, che fino a non molto tempo prima lo riempiva di apprensione o quanto meno lo irritava, non era più un problema Per la prima volta in vita sua era in compagnia di uomini che stavano plasmando il futuro, e non solo interpretando il morto passato. Anche se lui era solo uno spettatore, cominciava a condividere con quella gente le emozioni e a partecipare ai loro trionfi e alle loro sconfitte

«Sono molto colpito» scrisse nel diario quella sera «dal professor Maxton e dal suo staff. Secondo me hanno una visione molto più chiara e più vasta degli obiettivi della Interplanetary di tutti i non tecnici che ho conosciuto.

Matthews, ad esempio, parla sempre dei progressi scientifici che si faranno quando avremo raggiunto la Luna. Invece, forse perché danno per scontata questa cosa, gli scienziati sembrano più interessati alle ripercussioni culturali e filosofiche. Ma non devo generalizzare su casi che potrebbero non essere tipici.

«Ora sento di avere un’idea ben chiara di tutta l’organizzazione. A questo punto si tratta per lo più di inserire i particolari, cosa che dovrei essere in grado di fare con i miei appunti e con la massa di fotocopie che ho messo insieme. Non ho più l’impressione di essere uno straniero che guarda funzionare una macchina incomprensibile. Di fatto ora sento di essere quasi parte dell’organizzazione — anche se non debbo lasciarmi coinvolgere troppo. E’ impossibile restare neutrale, ma un «certo» distacco è necessario.

«Fino ad ora avevo svariati dubbi e molte riserve riguardo al volo spaziale. Nel mio subconscio mi sembrava che fosse una cosa troppo grande per l’uomo. Al pari di Pascal, ero terrificato dal silenzio e dal vuoto dello spazio infinito. Ora capisco che sbagliavo.

«L’errore che commettevo era il solito vecchio errore di aggrapparmi al passato. Oggi conosco uomini che pensano in milioni di miglia con la naturalezza con cui io penso in migliaia. C’era un tempo in cui mille miglia erano una distanza che andava oltre la comprensione. Ora invece tale distanza costituisce lo spazio tra un pasto e l’altro. Questo mutamento di scala sta per verificarsi di nuovo — e a una velocità senza precedenti.

«Ora vedo che i pianeti non sono lontani quanto la nostra mente immagina. La «Prometheus» impiegherà cento ore per raggiungere la Luna, e in questo frattempo comunicherà con la Terra e avrà addosso gli occhi di tutto il mondo. Che piccola cosa sembra il viaggio interplanetario, se lo confrontiamo con le settimane, i mesi e gli anni dei grandi viaggi del passato!

«Tutto è relativo. E verrà sicuramente il giorno in cui la nostra mente abbraccerà il Sistema Solare come ora fa con la Terra. E allora, probabilmente, quando gli scienziati staranno guardando pensosamente le stelle, molti diranno: «Non vogliamo il volo interstellare! I nove pianeti sono bastati ai nostri antenati e bastano anche a noi!».»

Posò la penna sorridendo e lasciò che la sua mente spaziasse nel regno della fantasia. L’Uomo avrebbe mai affrontato quella stupenda sfida e mandato le proprie navi nel golfo tra le stelle? Ricordò una frase che aveva letto una volta: «Le distanze interplanetarie sono di un milione di volte più grandi di quelle a cui siamo abituati nella vita quotidiana, ma le distanze interstellari lo sono svariati milioni di volte di più». La sua mente vacillò a quel pensiero, ma lui continuò ad aggrapparsi alla frase: «tutto è relativo». In poche migliaia di anni l’Uomo era passato dalla giunca alla nave spaziale. Che altro ancora avrebbe potuto fare negli eoni a venire?

16

Sarebbe falso ipotizzare che i cinque uomini sui quali erano puntati gli occhi di tutto il mondo si considerassero audaci avventurieri in procinto di rischiare la vita in uno stupendo gioco d’azzardo scientifico. Erano tutti tecnici dotati di spirito pratico e realistico che non intendevano minimamente prender parte a un qualsivoglia azzardo — per lo meno per quanto riguardava la loro vita. Un rischio c’era, naturalmente, ma si rischiava anche prendendo il treno delle 8.10 per raggiungere la City.

Ognuno di loro aveva reagito a modo proprio alla pubblicità della settimana precedente. Se l’erano aspettata e si erano preparati bene. Hassell e Leduc si erano già trovati sotto gli occhi del pubblico e sapevano come trarre godimento da quell’esperienza evitandone gli aspetti più irritanti. Gli altri tre membri dell’equipaggio, ritrovandosi di colpo famosi, tendevano a stare uniti come a darsi protezione l’un l’altro.

Una mossa fatale, perché li rese facile preda dei giornalisti.

Clinton e Taine erano ancora sufficientemente nuovi all’esperienza delle interviste per esserne compiaciuti, ma il loro collega canadese, Jimmy Richards, le detestava. Le sue risposte, di non grande aiuto inizialmente, si fecero sempre più brusche col passar del tempo poiché era arcistufo di rispondere sempre alle medesime domande. In un’occasione rimasta famosa, angariato da una giornalista particolarmente prepotente, si era comportato in modo ben meno che cavalleresco. Secondo la descrizione che prese a circolare in seguito grazie a Leduc, l’intervista era andata pressappoco nel seguente modo:

«Buongiorno, signor Richards. Vi spiacerebbe rispondere a qualche domanda per il «West Kensington Clarion»?»

Richards (annoiato ma ancora passabilmente cortese): «Certo, anche se tra pochi minuti ho appuntamento con mia moglie».

«Siete sposato da molto?»

«Da dodici anni.»

«Oh! Bambini?»

«Due: entrambe femmine, se ricordo bene.»

«Vostra moglie approva che ve ne voliate via dalla Terra così?»

«Sarà bene che lo faccia.»

(Pausa durante la quale l’intervistatrice si rende conto che, per una volta, la sua ignoranza della stenografia non costituirà un handicap).

«Suppongo abbiate sempre provato un violento impulso ad andare tra le stelle, a — ehm — piazzare la bandiera dell’umanità su altri mondi, vero?»

«No. Non ci ho mai pensato fino a un paio di anni fa.»

«E allora come mai siete stato scelto per questo volo?»

«Perché sono il secondo miglior ingegnere atomico del mondo.»

«E il primo chi è?»

«Il professor Maxton, che è troppo prezioso perché si rischi la sua vita.»

«Vi sentite nervoso?»

«Oh sì. Ho paura dei ragni, dei blocchi di plutonio che abbiano più di 30 centimetri di diametro e di tutto quello che fa rumore di notte.»

«Intendevo dire… siete nervoso all’idea di questo viaggio?»

«Sono terrorizzato. Guardate, vedete che tremo?» (Dimostrazione.

Danni di lieve entità alla mobilia.)

«Che cosa vi aspettate di trovare sulla Luna?»

«Una gran quantità di lava e pochissimo altro.»