Sir Robert Derwent, come tutti i grandi scienziati, era quel bambino. Dirk pensava che, in ultima analisi, lui avrebbe attraversato lo spazio per nessun’altra ragione se non per quella di guardare dai luccicanti picchi lunari la Terra passare dalla notte al giorno, o per vedere gli anelli di Saturno in tutta la loro inimmaginabile gloria, colmare il cielo della sua luna più vicina.
18
La consapevolezza che quello era l’ultimo giorno che avrebbe trascorso a Londra riempiva Dirk di un rimpianto colpevole.
Rimpianto perché praticamente non aveva visto nulla della città, colpevole perché non poteva fare a meno di avere la sensazione che ciò fosse in parte colpa sua. Era vero ch’era stato occupatissimo, ma guardando alle settimane trascorse, era difficile credere che gli fosse stato impossibile visitare il British Museum almeno due volte, o addirittura vedere anche una sola volta la Cattedrale di Saint Paul. Non sapeva quando avrebbe rivisto Londra, perché sarebbe tornato direttamente in America.
Era una bella giornata, ma piuttosto fredda, con la solita possibilità di pioggia imminente. Non c’era lavoro da fare nel suo appartamento, perché tutte le carte erano già state imballate e adesso erano già a metà strada. Salutò quei membri dello staff dell’Interplanetary che non avrebbe più rivisto; la maggior parte degli altri li avrebbe incontrati di buon mattino il giorno dopo all’aeroporto di Londra. Matthews, che sembrava esserglisi affezionato, si era quasi commosso, e anche Sam e Bert, con cui si era sempre beccato, avevano insistito per fare un piccolo festeggiamento d’addio in ufficio. Quando si allontanò da Southbank per l’ultima volta con una stretta al cuore, si rese conto che stava anche dicendo addio a uno dei periodi più felici della sua vita. Felice perché era stato pieno, perché gli aveva permesso di esprimere al massimo tutte le proprie risorse — e soprattutto perché lui era stato tra quegli uomini le cui vite avevano uno scopo che sapevano essere più grande di loro.
Comunque adesso si ritrovava con una giornata vuota davanti e non sapeva come occuparla. In astratto sembrava assurdo, ma in concreto era così.
Si avviò lungo la piazza silenziosa, chiedendosi se fosse stato saggio da parte sua lasciare l’impermeabile nell’appartamento.
Era solo a poche centinaia di metri dall’Ambasciata dove doveva recarsi per una piccola pratica, che però gli premeva abbastanza da indurlo a prendere una scorciatoia. Come risultato si perse subito nel meandro di viuzze e cul-de-sac che fa di Londra una continua fonte di esasperante delizia. Solo dopo aver fortuitamente intravisto il Roosevelt Memorial, finalmente ritrovò l’orientamento.
Una pigra colazione con alcune conoscenze dell’Ambasciata nel loro club preferito gli permise di passare le prime ore del pomeriggio; poi fu abbandonato alle sue risorse personali.
Avrebbe potuto andare ovunque voleva, vedere i posti che, in caso contrario, si sarebbe rammaricato di non aver visitato, e tuttavia una sorta di irrequieto stato di letargo lo rendeva incapace di fare qualsiasi cosa se non vagare a caso per le strade. Il sole si era finalmente attestato nel cielo e il pomeriggio era tranquillo e rilassante. Era piacevole aggirarsi per le viuzze e trovarsi per caso ai piedi di edifici più vecchi degli Stati Uniti sui quali però si leggevano scritte quali: «Grosvenor Radio and Electronic Corporation», oppure «Provincial Airways Ltd.».
Nel tardo pomeriggio emerse in quello che, concluse, doveva essere Hyde Park. Per un’ora passeggiò sotto gli alberi, sempre tenendo d’occhio le strade adiacenti. L’Albert Memorial lo tenne immobilizzato, lasciandolo incredulo per alcuni minuti, ma poi finalmente sfuggì al suo ipnotico incantamento e decise di tagliare attraverso il parco fino a Marble Arch.
Aveva dimenticato la fervida oratoria per la quale andava famoso quel tratto e lo divertì molto passare da un capannello a un altro, fermandosi ad ascoltare gli oratori e i loro critici.
Chi, si chiese, aveva messo in giro la voce che i britannici erano persone riservate e chiuse?
Ascoltò per un po’, oltremodo interessato, un duetto tra un oratore e il suo provocatore, nel quale entrambi sostenevano con pari accanimento che Karl Marx aveva — e non aveva — fatto una certa affermazione. Non capì di che affermazione si trattasse e cominciò a sospettare che i due stessi antagonisti se ne fossero dimenticati da parecchio. Di tanto in tanto la folla bonaria forniva opportune interruzioni perché ovviamente non aveva opinioni ben radicate sull’argomento, però voleva tenere accesa la discussione.
Il successivo oratore sembrava impegnato nel dimostrare con l’aiuto di testi biblici che il Giorno del Giudizio era vicino.
Rammentò a Dirk un profeta apocalittico dell’angoscioso 999 Anno Domini. I loro successori, dieci secoli dopo, avrebbero continuato a predire il Giorno dell’Ira quando il 1999 si fosse avvicinato alla conclusione? Aveva pochi dubbi al riguardo. Per molti versi la natura umana cambiava pochissimo: i profeti ci sarebbero sempre stati e ci sarebbe stato sempre qualcuno che avrebbe creduto loro.
Si spostò verso il gruppo successivo; un piccolo ma attento pubblico era raccolto attorno a un uomo anziano dai capelli bianchi che stava facendo una conferenza filosofica — una conferenza notevolmente dotta. Non tutti gli oratori, pensò Dirk, erano dei pazzi. Quello poteva essere un insegnante in pensione così convinto della possibilità di istruire gli adulti, da essere spinto a tener banco sulla piazza del mercato per tutti coloro che fossero disposti ad ascoltarlo.
Il suo discorso verteva sulla Vita, sulla sua origine, sul suo destino. I suoi pensieri, come quelli di chi lo ascoltava, erano indubbiamente influenzati da quella saetta alata che giaceva sul deserto all’altro capo del mondo, perché di lì a poco cominciò a parlare del palcoscenico astronomico sul quale si stava recitando lo strano dramma della vita.
Fece un vivido quadro del Sole e dei pianeti che lo attorniavano, portandosi appresso i pensieri dei suoi ascoltatori di mondo in mondo. Aveva il dono di saper elaborare frasi pittoresche e, anche se Dirk non era sicuro che si limitasse alle conoscenze scientifiche acquisite, l’effetto generale che dava era abbastanza preciso.
Rappresentò il minuscolo Mercurio, bruciante sotto il suo enorme sole, come un mondo di rocce roventi, spazzate da pigri oceani di metallo fuso. Venere, pianeta e sorella della Terra, restava perennemente nascosta alla vista da quelle nubi turbolente, che non si erano mai squarciate nemmeno una volta nel corso dei secoli durante i quali gli uomini l’avevano guardata. Sotto quella coperta forse c’erano oceani e foreste e il fremito di qualche strana vita, o forse non c’era altro che un deserto spoglio battuto da venti sferzanti.
Parlò di Marte; e nel pubblico passò un fremito di accresciuta attenzione. A quaranta milioni di miglia lontano dal Sole, la Natura aveva segnato il suo secondo punto. Anche lì c’era vita: vi si potevano vedere i colori mutanti che sul nostro mondo parlavano del passare delle stagioni. Anche se su Marte c’era poca acqua e la sua atmosfera era stratosfericamente rarefatta, era possibile che vi fosse della vegetazione e magari anche vita animale. Non vi era alcuna prova concreta di intelligenza.
Al di là di Marte i giganteschi mondi esterni se ne stavano raggelati in una luce crepuscolare, che diventava più buia e più fredda man mano che il Sole rimpiccioliva, fino ad essere una stella lontana. Giove e Saturno erano schiacciati sotto atmosfere spesse migliaia di miglia — atmosfere di metano e ammoniaca, squassate da uragani che si potevano osservare attraverso mezzo miliardo di miglia o più di spazio. Se su quegli strani pianeti esterni c’era vita, e se ce n’era anche su quei mondi ancor più freddi al di là di essi era un mistero che doveva essere ancor più inimmaginabile. Solo nella zona temperata del Sistema Solare, la stretta cintura entro la quale fluttuavano Venere, la Terra e Marte, era possibile che ci fosse la vita come noi la conoscevamo.