Vita come noi la conoscevamo! E quanto poco conoscevamo! Che diritto avevamo noi, nel nostro misero mondo, di presumere che essa fosse il modello per tutto l’universo? Si poteva essere più presuntuosi di così? L’universo non era ostile alla vita, ma semplicemente indifferente. La sua estraneità era un’opportunità e una sfida — una sfida che l’intelligenza avrebbe accettato.
Mezzo secolo prima Shaw aveva detto la verità quando aveva messo le seguenti parole in bocca a Lilith, venuta prima di Adamo ed Eva:
«Solo alla Vita non c’è fine; e sebbene dei suoi milioni di stellate dimore molte siano ancora vuote e molte ancora non costruite, e sebbene il suo vasto dominio sia ancora insopportabilmente deserto, un giorno il mio seme la riempirà e la padroneggerà sino ai suoi estremi confini».
La voce chiara e colta si spense e Dirk tornò ad essere consapevole di ciò che lo circondava. Era stata una performance notevole: gli sarebbe piaciuto saperne di più su quell’oratore, che ora stava tranquillamente smontando la piccola pedana su cui aveva parlato e si apprestava a portarla via su una carriola malridotta. La folla si stava disperdendo alla ricerca di nuove attrazioni. Di tanto in tanto frasi udite a metà e portate dal vento facevano capire a Dirk che gli altri oratori stavano ancora lavorando a pieno ritmo.
Si apprestò ad allontanarsi e, girandosi, intravide un volto che riconobbe. Per un attimo fu colto completamente di sorpresa: la coincidenza sembrava troppo improbabile per essere vera.
Fermo in mezzo alla gente, solo a pochi metri da lui, c’era Victor Hassell.
19
Maude Hassell non aveva avuto bisogno di spiegazioni elaborate quando il marito aveva detto, piuttosto bruscamente, che sarebbe andato «a far due passi nel parco». Aveva capito perfettamente e si era limitata a esprimere la speranza che nessuno lo riconoscesse e che sarebbe tornato in tempo per il tè. Entrambi i desideri erano destinati a non essere soddisfatti, cosa di cui lei era stata abbastanza sicura.
Victor Hassell viveva a Londra da quasi metà della propria vita, ma le sue prime impressioni della città erano ancora nitidissime, e avevano il primo posto tra i suoi affetti.
Giovane studente di ingegneria, aveva abitato nella zona di Paddington, recandosi tutti i giorni al college attraverso Hyde Park e Kensington Gardens. Quando pensava a Londra non vedeva strade affollate ed edifici famosi nel mondo, ma tranquilli viali alberati e campi aperti, e le distese di sabbia di Rotten Row, lungo le quali la domenica mattina persone a cavallo avrebbero continuato a fare le loro belle passeggiate anche quando le prime navi spaziali dell’umanità si fossero dirette a casa di ritorno dalle stelle. E non aveva bisogno di rammentare a Maude il loro primo incontro vicino al Serpentine, solo due anni prima, ma già un’eternità. Ora doveva accomiatarsi da tutti quei luoghi.
Passò un po’ di tempo in South Kensington, passando davanti a vecchi colleges che tanta parte erano dei suoi ricordi. Non era cambiato nulla lì: gli studenti con le loro cartelle, con il loro regolo e le loro squadre a T erano esattamente gli stessi.
Era curioso pensare che quasi un secolo prima il giovane H.G.
Wells aveva fatto parte di quella folla viva e irrequieta.
Agendo d’impulso, entrò nello Science Museum e raggiunse, come tante volte aveva fatto in passato, la copia del biplano dei Wright. Trent’anni prima l’originale era appeso nella grande galleria, ma da molto tempo era tornato negli Stati Uniti, e pochi ora ricordavano la prolungata battaglia condotta da Orville Wright contro lo Smithsonian Institute, che era stato la causa del suo esilio.
C’erano settantacinque anni, una lunga vita, non di più — tra la fragile intelaiatura di legno che si era levata di pochi metri dal suolo a Kitty Hawk e il grande proiettile che forse di lì a poco lo avrebbe portato sulla Luna. E non dubitava che in un’altra vita la «Prometheus» sarebbe apparsa tanto buffa e primitiva quanto il piccolo biplano sospeso sopra la sua testa.
Hassell uscì e raggiunse Exhibition Road sotto il sole che brillava luminoso. Sarebbe potuto restare un po’ di più al museo, ma si era accorto che diverse persone avevano cominciato a fissarlo troppo intensamente. Si disse che le sue probabilità di non essere riconosciuto erano verosimilmente più basse in quell’edificio che ovunque altrove sulla Terra.
Passeggiò lentamente per il parco, lungo i viali che conosceva così bene, soffermandosi un paio di volte ad ammirare scorci che forse non avrebbe mai più rivisto. In questa consapevolezza non c’era alcuna morbosità. Riusciva a valutare con un certo distacco la maggiore intensità che tale consapevolezza dava alle sue emozioni. Come la maggior parte degli uomini, Hassell aveva paura della morte; ma c’erano occasioni in cui essa costituiva un rischio giustificabile. Questo, quanto meno, era stato vero fino a che aveva potuto prendere in considerazione solo se stesso. Desiderava solo poter dimostrare che era ancora così. Ma finora non c’era riuscito.
Non lontano da Marble Arch c’era una panchina sulla quale Maude e lui si erano spesso seduti prima di sposarsi. Le aveva chiesto di sposarlo molte volte, e lei aveva rifiutato quasi — ma non proprio — altrettante volte. Fu contento di vedere che in quel momento era libera e vi si lasciò cadere con un sospiretto soddisfatto.
La sua soddisfazione fu di breve durata perché meno di cinque minuti dopo fu raggiunto da un anziano signore che prese posto accanto a lui con una pipa in bocca e il «Manchester Guardian»
in mano. (Il fatto che qualcuno avesse potuto desiderare di far la guardia a Manchester gli era sempre apparso come oltremodo sconcertante.) Di lì a un po’ decise di alzarsi, ma prima che potesse farlo senza apparire maleducato vi fu un’ulteriore complicazione. Due ragazzini che stavano passeggiando lungo il viale virarono all’improvviso a destra e si avvicinarono alla panchina. - Lo guardarono con aria decisa nel modo disinibito di certi ragazzini, poi il maggiore disse in tono d’accusa: Ehi signore, siete Vic Hassell?».
Hassell li osservò con espressione critica. Erano evidentemente fratelli, una coppia di bambini brutti quanto sarebbe stato difficile trovarne nell’arco di un’intera lunga giornata.
Rabbrividì leggermente nel rendersi conto di quanto fosse rischioso essere genitore.
In circostanze normali Hassell avrebbe risposto allegramente all’accusa, dato che non aveva dimenticato i suoi entusiasmi infantili. Lo avrebbe fatto anche ora se lo avessero avvicinato in modo più educato. Ma quei monelli sembravano scappati dalla scuola per giovani delinquenti del Dottor Fagin.
Li guardò fissamente e rispose con la sua voce da Mayfair 1920 circa: «Sono le tre e mezza e io non ho spiccioli».
A quell’abile «non sequitur» il più piccolo si rivolse al fratello ed esclamò accaloratamente:
«Cavoli, George… te lo aveva detto che non era lui!».
L’altro prese a strozzarlo lentamente torcendogli la cravatta e continuò a parlare come se non fosse successo nulla.
«Siete Vic Hassell, il tizio del razzo.»
«Vi sembra che somigli al signor Hassell?» chiese il signor Hassell in tono di sorpresa indignata.
«Sì.»
«E strano… nessuno me l’ha mai detto.»
Quelle parole potevano sembrare fuorvianti, ma erano letteralmente la verità. I due lo guardarono con aria pensosa: al minore ora era stato concesso il lusso di respirare.
Improvvisamente George si rivolse al «Manchester Guardian», anche se ora nella sua voce traspariva una punta di dubbio:
«Ci sta prendendo in giro, signore, vero?».
Un paio di occhiali si sollevarono al di sopra del giornale a fissarli a mo’ di gufo. Poi si posarono su Hassell che cominciò a sentirsi a disagio. Seguì un silenzio lungo e pensoso.
Poi lo sconosciuto picchiettò un dito sulla pagina del giornale e disse in tono severo: