In tutti i continenti apparecchi radar a lungo raggio venivano sintonizzati per seguire l’«Alpha» nel suo viaggio nello spazio.
Il piccolo radarfaro a bordo della nave spaziale avrebbe consentito di controllarne la posizione in ogni fase del viaggio.
Nel sottosuolo della Princeton University era pronto uno dei più grandi computer del mondo. Se fosse stato necessario per una qualsiasi ragione cambiare orbita, o ritardare il ritorno, bisognava calcolare una nuova traiettoria attraverso i mutevoli cambi gravitazionali della Terra e della Luna. Un esercito di matematici ci avrebbe impiegato mesi per farlo: il calcolatore di Princeton poteva dare la risposta già stampata in poche ore.
Ogni radioamatore del mondo in grado di sintonizzarsi sulla frequenza della nave spaziale stava dando un’ultima occhiata di controllo alla propria apparecchiatura. Non sarebbero stati molti coloro che avrebbero potuto sia ricevere sia interpretare l’iperfrequenza, segnali dei modulatori di impulsi provenienti dal veicolo, ma alcuni ce ne sarebbero stati. I cani da guardia dell’etere, i Commissari alle Comunicazioni, erano pronti a intervenire nel caso che qualche trasmittente non autorizzata avesse tentato di introdursi nel circuito.
Sulle cime montuose gli astronomi si stavano preparando per la loro gara privata — una sfida su chi avrebbe ottenuto le foto migliori e più chiare dell’allunaggio. L’«Alpha» era troppo piccola perché la si potesse vedere quando avesse raggiunto la Luna — ma le fiamme dei getti, quando avessero colpito le rocce lunari, sarebbero dovute essere visibili ad almeno un milione di miglia di distanza.
Nel frattempo i tre uomini che occupavano il centro del palcoscenico mondiale concedevano interviste quando ne avevano voglia, dormivano a lungo nei loro alloggi, oppure sfogavano la tensione giocando a ping pong, che era più o meno l’unica forma di sport offerta da Luna City. Leduc, che aveva un senso macabro dell’umorismo, si divertiva a raccontare agli amici le cose inutili o offensive che aveva lasciato loro nel testamento.
Richards si comportava come se non fosse successo nulla di minimamente importante e insisteva nel prendere elaborati impegni mondani di lì a tre settimane. Taine si vedeva raramente — più tardi si venne a sapere che era indaffarato a scrivere un trattato matematico che aveva ben poco a che vedere con l’astronautica. Si trattava di fatto di un calcolo del numero di tutte le possibili partite di bridge e del tempo che ci sarebbe voluto per giocarle tutte.
Pochissimi in effetti sapevano che il meticoloso Taine avrebbe potuto, se lo avesse voluto, guadagnare molto più denaro con cinquantadue carte, di quanto avrebbe mai potuto guadagnarne con l’astronomia. Per quanto non se la sarebbe cavata male, ora, se fosse tornato sano e salvo dalla Luna…
Sir Robert Derwent sedeva del tutto rilassato in poltrona nella stanza buia, tranne che per il fascio di luce della lampada da lettura. Era quasi dispiaciuto che non ci fosse stato bisogno del margine di due o tre giorni ritenuto necessario nel caso di intoppi del l’ultimo momento. Mancavano ancora una notte, un giorno e un’altra notte al decollo — e non si poteva far altro che aspettare.
Al Direttore Generale non piaceva aspettare. Ciò gli dava tempo di pensare e il pensiero era nemico della felicità. Ora, nella tranquillità della notte, mentre si avvicinava il più grande momento della sua vita, lui rivisitava il passato alla ricerca della sua gioventù.
I quarant’anni di lotte, di successi e di atroci delusioni stavano ancora nel futuro. Era di nuovo ragazzo. All’inizio della sua carriera universitaria, e la Seconda Guerra Mondiale che gli aveva rubato sei anni di vita era solo una nube minacciosa all’orizzonte. Se ne stava in un bosco dello Shropshire, in una di quelle mattinate primaverili che non erano più tornate. E il libro che stava leggendo era quello che anche ora aveva tra le mani. Su un foglio si leggevano, in inchiostro sbiadito, queste parole scritte con una calligrafia stranamente immatura: Robert A. Derwent. 22 giugno 1935.
Il libro era lo stesso — ma dov’era adesso la musica di quelle parole melodiose che un tempo gli avevano incendiato il cuore?
Era troppo vecchio e troppo saggio: i trucchi dell’allitterazione e della ripetizione non lo ingannavano più, e il vuoto di pensiero era fin troppo chiaro. Eppure sempre vi sarebbe stata una vaga eco proveniente dal passato e per un attimo il sangue gli sarebbe salito alle guance come quarant’anni prima. A volte una frase era sufficiente:
«O liuto dell’Amore che si ode sopra le terre della Morte!».
A volte un distico:
«Fino a che Dio non avrà scatenato su terra e mare
Il fragore delle trombe della notte».
Il Direttore Generale fissò gli occhi nel vuoto. Lui stesso stava per scatenare un fragore quale il mondo mai aveva sentito prima. Sull’Oceano Indiano i marinai avrebbero levato lo sguardo dalle loro navi quando i motori rombanti fossero sfrecciati nel cielo; i coltivatori di tè di Ceylon li avrebbero uditi, ormai deboli e vaghi, mentre si dirigevano verso l’Africa. I pozzi petroliferi arabi avrebbero captato gli ultimi echi che sarebbero filtrati giù dalle frange dello spazio.
Sir Robert voltava le pagine pigramente, fermandosi ogni volta che parole alate catturavano la sua mente:
«Non è molto ciò che un uomo può salvare
Sulle sabbie della vita, negli stretti del tempo,
Mentre nuota verso la terza grande ondata
Che mai nuotatore potrà attraversare o superare».
Che aveva salvato, lui, del Tempo? Molto più, lo sapeva, della maggior parte degli uomini. Eppure aveva quarant’anni quando aveva trovato uno scopo nella vita. L’amore per la matematica era sempre stato costante in lui, ma per molto tempo era stata una passione priva di scopo. Anche ora sembrava che il caso avesse fatto di lui quello che era.
«Nella Francia antica viveva un cantore
Sulle rive del triste mare interno senza maree.
In una terra di sabbia e distruzione e d’oro
Brillava una donna, e lei sola.»
La magia passò e svanì. Tornò con la mente agli anni della guerra, quando aveva combattuto in quella silenziosa battaglia nei laboratori. Mentre gli uomini morivano in terra, per mare e nell’aria, lui tracciava il percorso degli elettroni attraverso campi magnetici interdipendenti. Nulla avrebbe potuto essere più remotamente accademico: eppure dal lavoro cui aveva contribuito era nata la più grande arma tattica della guerra.
Piccolo era stato il passo dal radar alla meccanica celeste, dalle orbite dell’elettrone ai sentieri dei pianeti attorno al Sole. Le tecniche che egli aveva applicato al piccolo mondo del magnetrone avrebbero potuto essere di nuovo utilizzate su scala cosmica. Forse era stato fortunato: dopo soli dieci anni di lavoro era diventato famoso per il modo in cui aveva affrontato il problema dei tre corpi celesti. Dieci anni dopo, con sorpresa di tutti, inclusa la sua, era diventato Astronomo Reale.
«Il pulsare della guerra, e l’emozione del meraviglioso,
I cieli che mormorano, i suoni che splendono,
Le stelle che cantano e gli amori che tuonano,
La musica che brucia nel cuore come il vino…»
Avrebbe potuto conservare con efficienza e successo quel posto per il resto della sua vita, ma lo «Zeitgeist» dell’astronautica era stato troppo forte. La mente gli aveva detto che l’attraversamento dello spazio era imminente, ma quanto fosse imminente, lui stesso inizialmente non lo aveva capito. Quando questa consapevolezza finalmente era nata, lui aveva infine riconosciuto lo scopo della sua vita, e i lunghi anni di fatica avevano cominciato a dare frutti.
«Ah! non avevo forse preso in mano la mia vita e dato
Tutto ciò che la vita dà e che gli anni si portan via,
Il vino e il miele, il balsamo e il lievito,