Attese in un hangar deserto ai margini del campo, fino a che non fu comparsa la sottile falce di luna. Faceva molto freddo e lui non si era preparato a questo, dal momento che in Pennsylvania era estate. Ma la missione che aveva da compiere lo aveva reso risoluto e, quando finalmente la luce dei riflettori si spense, si avviò lungo il deserto mare di cemento verso le nere ali spiegate sotto le stelle.
La recinzione di corda lo bloccò e dovette chinarsi per passarvi sotto. Alcuni minuti dopo le sue mani tastarono un’intelaiatura metallica nell’oscurità ed egli si fece strada aggirando la base dell’incastellatura. Si fermò ai piedi dei gradini di metallo, in ascolto. Il mondo era estremamente silenzioso, all’orizzonte vedeva il riflesso di alcune luci ancora accese a Luna City. Ad alcune centinaia di metri di distanza riusciva a intravedere il profilo scuro di costruzioni e hangar, che però erano deserti e bui. Cominciò ad arrampicarsi.
Quando fu giunto sulla prima piattaforma a sei metri da terra si fermò di nuovo, si rimise in ascolto e di nuovo si sentì rassicurato. La pila elettrica e gli strumenti che pensava gli sarebbero potuti servire, gli pesavano nelle tasche. Si sentiva piuttosto orgoglioso della sua lungimiranza e della facilità con la quale aveva portato avanti il suo piano.
Era arrivato all’ultimo gradino: ora si trovava sulla piattaforma superiore. Strinse la torcia con una mano e un momento dopo le pareti della nave spaziale risultarono fredde e levigate sotto le sue dita.
Per la costruzione della «Prometheus» erano stati impiegati milioni di sterline, e ancor più milioni di dollari. Gli scienziati che avevano ottenuto tali cifre da governi e da grandi industrie non erano proprio folli. Alla maggior parte degli uomini — anche se non a Jefferson Wilkes — sarebbe sembrato improbabile che il frutto di tutte quelle fatiche venisse lasciato incustodito e non protetto di notte.
Molti anni prima, i progettatori avevano previsto la possibilità di sabotaggi da parte di fanatici religiosi, e uno dei più preziosi schedari dell’Interplanetary conteneva le lettere minatorie che questa gente era stata abbastanza illogica da scrivere. Quindi erano state prese tutte le precauzioni ragionevoli — e prese da esperti, alcuni dei quali avevano passato anni durante la guerra a sabotare gli impianti dell’Asse o degli Alleati.
Quella notte, la guardia che stava nel bunker di cemento all’estremità della pista era uno studente in legge di nome Achmet Singh, che si stava guadagnando qualche soldo durante le vacanze in un modo che gli piaceva molto. Doveva solo essere al suo posto per otto ore al giorno e un tale lavoro gli dava buone possibilità di studiare. Quando Jefferson Wilkes giunse alla prima barriera di corda, Achmet Singh dormiva profondamente — come, in modo abbastanza sorprendente, egli si era aspettato. Ma cinque secondi dopo era completamente sveglio.
Singh disinnescò l’allarme e si avvicinò in fretta al pannello di controllo bestemmiando fluentemente in tre lingue e quattro religioni. Era la seconda volta che accadeva mentre era di guardia. Prima un cane appartenente a un membro dell’equipaggio, che si era smarrito, aveva fatto scattare l’allarme.
Probabilmente era successa di nuovo la stessa cosa.
Accese il convertitore di immagine, aspettando con pazienza per alcuni secondi che i tubi si scaldassero. Poi azionò freneticamente i controlli del proiettore e cominciò a ispezionare la nave spaziale.
Ad Achmet Singh sembrò che un fascio di luce color porpora stesse illuminando il cemento verso la piattaforma di lancio. In mezzo al raggio del proiettore, completamente inconsapevole della presenza di Singh, un uomo avanzava guardingo verso la «Prometheus». Era impossibile non ridere vedendolo muoversi a tastoni e alla cieca mentre tutta la zona attorno a lui veniva inondata di luce. Achmet lo seguì con il raggio del proiettore a infrarossi fino a che egli giunse all’incastellatura. A questo punto entrarono in funzione gli allarmi secondari, ed egli spense anche questi. Decise che non avrebbe agito fino a quando non avesse capito le intenzioni dell’intruso.
Quando Jefferson Wilkes si fermò soddisfatto sulla prima piattaforma, Achmet Singh fece un’eccellente fotografia che sarebbe stata una prova decisiva in qualsiasi tribunale. Attese fino a quando Wilkes ebbe raggiunto il portello a tenuta d’aria, poi decise di agire.
L’esplosione di luce che inchiodò Wilkes contro le pareti della «Prometheus» lo accecò con la stessa efficacia dell’oscurità in mezzo alla quale era avanzato a tastoni. Per un momento lo choc fu così paralizzante da bloccarlo, e poi una voce tonante rimbombò nella notte.
«Che cosa state facendo lì? Scendete subito.»
Automaticamente Wilkes prese a scendere i gradini, incespicando.
Dovette raggiungere la piattaforma inferiore prima che quella paralisi mentale scomparisse. Si guardò attorno disperatamente, alla ricerca di una via di fuga. Riparandosi gli occhi riuscì a vedere qualcosa: il fatale cerchio di riflettori attorno alla «Prometheus» era solo a cento metri di distanza, e al di là di esso c’era l’oscurità, e forse la salvezza. La voce urlò di nuovo da dietro la pozza di luce:
«Sbrigatevi! Venite da questa parte. Vi teniamo sotto tiro».
Quel plurale era una pura invenzione di Singh, sebbene fosse vero che i rinforzi, sotto forma di due irritati e assonnati poliziotti, stavano arrivando.
Jefferson Wilkes concluse la sua lenta discesa e si fermò tremante sul cemento, appoggiandosi all’incastellatura. Restò immobile per mezzo minuto, poi, come Achmet aveva previsto, improvvisamente schizzò dietro la nave e scomparve. Sarebbe corso verso il deserto e sarebbe stato abbastanza facile circondarlo, ma si sarebbe risparmiato tempo se Achmet avesse potuto indurlo a tornare indietro spaventandolo. La guardia abbassò un altro pulsante dell’altoparlante.
Quando la stessa voce echeggiò dal buio davanti a lui, dove aveva pensato di trovare la salvezza, il piccolo brandello di coraggio del terrificato Jefferson Wilkes svanì. In preda a una forsennata paura, come un animale braccato, tornò al veicolo spaziale e cercò di nascondersi nella sua ombra. E tuttavia, anche in quel momento, l’impulso che gli aveva fatto fare il giro del mondo continuò a spingerlo ciecamente, anche se era scarsamente consapevole dei propri motivi e delle proprie azioni. Prese a farsi strada lungo la base della «Prometheus», sempre restando in ombra.
Il grande pozzo a poca distanza dalla sua testa parve offrirgli una seconda possibilità per entrare, o, quanto meno, l’opportunità di nascondersi finché non avesse potuto scappare.
In circostanze normali non sarebbe mai riuscito ad arrampicarsi sulle pareti lisce di metallo, ma la paura e la determinazione gli diedero forza. Achmet Singh, che guardava la scena sullo schermo televisivo a un centinaio di metri di distanza, impallidì di colpo. Cominciò a parlare in fretta e concitatamente nel microfono.
Jefferson Wilkes non lo sentì: non notò che la voce emergente dalla notte non era più perentoria, ma implorante. Adesso per lui non contava più nulla: era solo consapevole del nero tunnel che aveva davanti. Tenendo la torcia in una mano, prese a strisciarvi dentro.
Le pareti erano di un materiale grigio simile a roccia, duro, eppure stranamente caldo al tatto. Wilkes aveva l’impressione di addentrarsi in una grotta dalle pareti perfettamente circolari; dopo pochi metri essa si allargò al punto che, se si fosse chinato, sarebbe riuscito a camminare in piedi. Attorno a lui, adesso, c’era un insensato mosaico di barre metalliche e quella strana roccia grigia — la più refrattaria delle ceramiche — sulla quale aveva strisciato.
Non poté proseguire: ora la grotta improvvisamente si era divisa in una serie di cunicoli troppo piccoli per potervi entrare.
Passando la torcia elettrica sopra di essi, notò che sulle pareti c’erano protuberanze e cavità. Avrebbe potuto fare del danno lì, ma non poteva arrivarci.