Jefferson Wilkes si accasciò sul suolo duro e rigido. La pila gli scivolò dalle dita inerti e il buio lo avvolse di nuovo. Era troppo stremato per provare delusione o dispiacere. Non notò, né avrebbe potuto capire cos’era, la debole luminosità fissa che bruciava sulle pareti attorno a lui.
Un po’ più tardi, alcuni rumori provenienti dal mondo esterno riportarono indietro la sua mente da quel posto indefinito in cui si era involata. Si mise seduto e si guardò attorno, senza capire dove fosse e come avesse fatto a finire lì. Lontano vedeva un vago cerchio di luce, la bocca di quella misteriosa caverna. Al di là dell’apertura c’erano voci e rumori di macchine che si spostavano avanti e indietro. Sapeva che erano ostili e che doveva restar lì, dove non avrebbero potuto trovarlo.
Non sarebbe andata così. Una luce violenta passò come un sole nascente attraverso la bocca della sua caverna, quindi tornò a splendergli addosso. Stava avanzando lungo il tunnel, e dietro di essa c’era una cosa strana ed enorme che la sua mente non avrebbe potuto afferrare.
Urlò terrorizzato quando quelle mascelle metalliche comparvero in piena luce e avanzarono ad afferrarlo. Poi cominciò ad essere trascinato irrimediabilmente fuori, all’aperto, dove i suoi sconosciuti nemici erano in attesa.
Tutt’attorno a lui c’era una confusione di luci e di rumori. Una grande macchina, che sembrava viva, lo teneva tra le proprie braccia metalliche e stava allontanandosi da una sagoma alata terrificante che avrebbe dovuto ricordargli qualcosa, ma non lo fece. Poi fu deposto al suolo, in mezzo a un cerchio di uomini.
Si chiese come mai non si facessero avanti, perché restassero tanto lontani e lo guardassero in modo così strano. Non oppose resistenza quando lunghe aste con degli strumenti scintillanti gli passarono attorno come a esplorargli il corpo. Nulla contava ora; provava solo un sordo malessere e un irrefrenabile desiderio di dormire.
Improvvisamente un’ondata di nausea lo travolse e si accasciò al suolo. D’impulso gli uomini che formavano quell’ampio cerchio fecero un passo avanti — ma poi si ritrassero.
La figura contorta e infinitamente patetica giaceva come una bambola rotta sotto le luci abbaglianti. Non c’era un rumore, non un movimento: sullo sfondo, le grandi ali della «Prometheus»
incombevano sopra le proprie pozze d’ombra. Poi il robot scivolò in avanti, trascinando sul terreno i propri cavi armati. Molto delicatamente, le braccia di metallo si abbassarono e le strane mani si allargarono.
Jefferson Wilkes aveva raggiunto la fine del suo viaggio.
30
Dirk sperava che l’equipaggio avesse trascorso una notte migliore della sua. Si sentiva ancora assonnato e confuso, ma aveva la netta impressione di essere stato svegliato più di una volta da un rumore di macchine guidate sfrenatamente nella notte. Forse c’era stato un incendio da qualche parte, ma lui non aveva sentito nessuna sirena.
Si stava radendo quando McAndrews entrò nella sua stanza, manifestamente bruciante dalla voglia di dargli la notizia. Il direttore delle Pubbliche Relazioni aveva l’aria di uno che fosse stato sveglio per tutta la notte, il che effettivamente era quasi vero.
«Avete sentito la notizia?» chiese con voce un po’ affannata.
«Quale notizia?» chiese Dirk spegnendo il rasoio, un po’ irritato.
«C’è stato un tentativo di sabotaggio della «Prometheus».»
«Che cosa?»
«E’ successo verso l’una di stanotte. I rivelatori hanno individuato un uomo che cercava di salire a bordo dell’«Alpha».
Quando il guardiano gli ha intimato di venir fuori, quel maledetto idiota ha cercato di nascondersi — nello scarico della «Beta»!»
Ci vollero alcuni secondi perché il pieno significato di quelle parole si facesse strada in lui. Poi Dirk ricordò quanto gli aveva detto Collins mentre lui stava guardando con il telescopio in quel pozzo mortale. «Che ne è stato di lui?» chiese con voce impastata.
«L’hanno chiamato con gli altoparlanti, ma lui non si è dato per inteso. Quindi hanno dovuto tirarlo fuori con il robot. Era ancora vivo, ma troppo pericoloso perché ci si potesse avvicinare. E’ morto un paio di minuti dopo. Secondo i medici probabilmente non ha assolutamente capito quello che gli era successo, con una dose simile è così.»
Provando un po’ di nausea, Dirk si lasciò cadere sul letto.
«Ha fatto qualche danno?» chiese dopo un po’.
«Pensiamo di no. Non è riuscito a entrare nella nave, e non poteva fare nulla al jet. Si temeva che potesse aver lasciato una bomba. Fortunatamente non l’ha fatto.»
«Doveva essere pazzo. Avete idea di chi fosse?»
«Probabilmente un fanatico religioso di qualche genere. Ne abbiamo molti contro. La polizia sta cercando di risalire alla sua identità in base a ciò che aveva in tasca.»
Seguì un silenzio cupo, poi Dirk disse:
«Non è un bel saluto di commiato alla «Prometheus», vero?».
McAndrews scrollò le spalle, piuttosto indifferente.
«Non penso che qui abbiamo gente superstiziosa! Venite a vedere come fanno il rifornimento di combustibile. E’ in programma per le due. Vi darò un passaggio in macchina.»
La proposta non entusiasmò Dirk.
«Grazie lo stesso, ma ho un bel po’ di cose da fare, e poi non ci sarà granché da vedere, no? Voglio dire, veder pompare qualche centinaio di tonnellate di combustibile non dev’essere molto eccitante. Suppongo che potrebbe anche esserlo… ma in tal caso preferirei non essere lì.»
McAndrews parve un po’ irritato, ma Dirk non poteva farci nulla.
Per il momento provava stranamente ben poco desiderio di avvicinarsi di nuovo alla «Prometheus». Una cosa irrazionale, ovviamente, dato che non c’era motivo di incolpare la grande nave spaziale se si difendeva dai propri nemici.
Per tutto il giorno Dirk udì il rombo degli elicotteri che arrivavano in un flusso continuo dalle grandi città australiane e di tanto in tanto qualche jet transcontinentale che si abbassava sibilando sull’aeroporto. Non riusciva a immaginare dove quei primi visitatori avrebbero trascorso la notte. Nelle baracche col riscaldamento centrale non faceva per nulla caldo e i cronisti tanto sfortunati da essere stati alloggiati sotto le tende avevano raccontato terribili storie di sofferenze, molte delle quali erano quasi vere.
Nel tardo pomeriggio incontrò Collins e Maxton nel salotto e fu informato che il rifornimento era stato effettuato senza alcuna difficoltà. Al che Collins concluse: «Ora non ci resta che accendere l’azzurra carta nitrata e tirarci indietro».
«Tra l’altro» osservò Maxton «non avevate detto l’altra sera di non aver mai visto la Luna col telescopio? Tra un minuto saremo all’osservatorio, perché non venite con noi?»
«Con molto piacere… ma non ditemi che voi pure non l’avete mai guardata!»
Maxton sorrise.
«Farei una pessima figura, come direbbe Ray. Si dà il caso che la Luna mi sia abbastanza familiare, ma dubito che più di metà delle persone dell’Interplanetary abbiano mai usato un telescopio. Il D.G. è il miglior esempio di questo. Ha passato dieci anni di ricerche astronomiche prima anche solo di avvicinarsi a un osservatorio.»
«Non dite che ve l’ho detto io» si intromise Collins molto seriamente «ma ho scoperto che gli astronomi si dividono in due specie. La prima è prettamente notturna e passa le ore lavorative a scattare foto di oggetti tanto lontani che probabilmente non esistono neppure più. Non è interessata al Sistema Solare, che considera un incidente molto strano e quasi imperdonabile. Durante il giorno la si può trovare addormentata sotto grandi pietre in luoghi caldi e secchi.
«Quelli della seconda specie lavorano in orari più normali e vivono in uffici pieni di calcolatori e computer. Questo li secca non poco, ciò nonostante riescono a sfornare fogli e fogli di calcoli matematici riguardanti gli oggetti — probabilmente inesistenti — fotografati dai loro colleghi, con i quali comunicano attraverso bigliettini affidati al guardiano notturno.