Il professor Alexson si alzò e si avvicinò alla libreria con il nuovo libro in mano. Un osservatore attento avrebbe notato che c’era qualcosa di molto strano nel suo modo di camminare: aveva una scioltezza curiosa che non ci si sarebbe aspettati da un uomo che si stava avvicinando alla sessantina. Collocò il volume accanto agli altri cinque e restò fermo a lungo a contemplare la piccola fila.
La rilegatura e i caratteri si accordavano molto bene — era stato molto attento a questo — e il gruppo di libri era piacevole alla vista. In essi era finita gran parte del suo lavoro di una vita e, ora che il suo compito si era concluso, lui era molto contento. Tuttavia, rendersi conto che la sua opera si era compiuta gli dava un gran senso di vuoto.
Prese di nuovo il sesto volume e tornò alla scrivania. Non se la sentiva di iniziare subito la ricerca degli errori di stampa, di pecche che sicuramente esistevano; in ogni caso gli sarebbero state fatte rilevare fin troppo presto.
La copertina dura protestò irrigidita, quando lui aprì il volume e guardò i titoli dei capitoli, sussultando lievemente non appena giunse alla riga «Errata Voll. primo-quinto». Tuttavia aveva commesso pochi errori evitabili, e soprattutto non si era fatto alcun nemico. A volte, nell’ultimo decennio, ciò non era stato affatto facile. Alcune delle centinaia di persone i cui nomi comparivano nell’indice non si erano sentite lusingate dalle sue parole, ma nessuno lo aveva mai accusato di indebita parzialità. Era convinto che nessuno avrebbe potuto riconoscere quali degli uomini comparsi nella lunga e intricata storia erano stati suoi amici personali.
Guardò il frontespizio — e la sua mente ritornò indietro, a oltre vent’anni prima. La «Prometheus» era lì, in attesa del suo destino. Da qualche parte, in mezzo a quella folla, lontano, sulla sinistra, c’era lui, un giovane uomo che aveva ancora davanti il lavoro della sua vita. Un giovane uomo che, pur non essendone consapevole, era condannato a morte.
Il professor Alexson raggiunse la finestra dello studio e guardò fisso fuori, verso la notte. La vista per ora era poco ostruita dalle costruzioni, e lui sperava che sarebbe rimasta così e che gli consentisse sempre di osservare il lento levarsi del Sole sulle montagne a quindici miglia oltre la città.
Era mezzanotte, ma la fissa luminosità bianca che si riversava da quelle vertiginose pendici rendeva la scena chiara quasi fosse giorno. Sulle montagne le stelle brillavano di quella luce fissa che continuava a sembrargli strana. E più in alto ancora…
Il professor Alexson alzò la testa e fissò con le palpebre semiabbassate il mondo di un biancore accecante, sul quale non avrebbe mai più camminato. Era una notte molto brillante, quella, perché la maggior parte di tutto l’emisfero settentrionale era avvolta da nubi abbacinanti. Solo l’Africa e le regioni mediterranee erano oscurate. Ricordò che sotto quelle nuvole era inverno; e sebbene apparissero così splendide e luminose da quella distanza di un quarto di milione di miglia di spazio, viste dalle terre senza sole che ricoprivano dovevano sembrare di un grigiore spento e cupo.
Inverno, estate, autunno, primavera — qui non significavano nulla. Lui li aveva salutati quando aveva fatto il suo baratto.
Era stato un baratto duro ma equo. Si era separato dalle onde e dalle nuvole, dai venti e dagli arcobaleni, dai cieli azzurri e dai lunghi crepuscoli delle sere estive. In cambio, aveva ricevuto un’indefinita sospensione dell’esecuzione.
Ricordò, tornando indietro di alcuni anni, le discussioni senza fine con Maxton, Collins e gli altri sul valore del volo spaziale per la razza umana. Alcune delle loro previsioni si erano tradotte in realtà, altre no. Ma per quanto riguardava lui, si erano rivelate assolutamente esatte. Matthews aveva detto la verità quando aveva affermato, tanto tempo prima che i più grandi benefici che sarebbero derivati dall’attraversamento dello spazio sarebbero stati benefici che nessuno aveva mai immaginato.
Più di dieci anni prima i cardiologi gli avevano dato tre anni di vita; ma le grandi scoperte mediche fatte sulla base lunare erano arrivate giusto in tempo per salvarlo. A un sesto di gravità, dove un uomo pesava meno di quindici chili o giù di lì, un cuore che sulla Terra avrebbe ceduto avrebbe invece continuato a battere con vigore per anni. E c’era anche la possibilità — piuttosto terrificante per le sue implicazioni sociali — che la durata della vita umana potesse essere più grande sulla Luna che sulla Terra. Molto prima di quanto nessuno avesse mai osato sperare, l’astronautica aveva pagato i suoi più grandi e inaspettati dividendi. Lì, entro la curva degli Appennini, nella prima delle città mai costruite all’esterno della Terra, cinquemila esuli vivevano una vita utile e felice, al sicuro dalla mortale gravità del loro mondo d’origine. Col tempo, avrebbero ricostruito tutto quanto si erano lasciati alle spalle; già ora il viale di cedri lungo Main Street era un coraggioso simbolo della bellezza che sarebbe nata negli anni a venire. Il professor Alexson sperava di poter vivere per vedere la costruzione del Parco, quando la seconda e più grande Cupola fosse stata eretta a tre miglia a nord di lì.
Su tutta la Luna la vita stava rinascendo. Una volta aveva tremolato e si era spenta, mille milioni di anni prima: questa volta non sarebbe andata così, perché essa era parte di una piena crescente che in pochi secoli sarebbe dilagata fino ai pianeti più esterni.
Come aveva fatto tante volte, il professor Alexson passò le dita sul pezzo di roccia marziana che Victor Hassell gli aveva dato anni prima. Un giorno, se avesse voluto, avrebbe potuto andare in quello strano piccolo mondo; presto ci sarebbero state navi in grado di fare l’attraversamento in tre settimane, quando il pianeta fosse stato nel punto più vicino. Lui aveva cambiato mondo già una volta, avrebbe potuto farlo una seconda, se mai fosse stato ossessionato dalla vista dell’irraggiungibile Terra.
Sotto il suo turbante di nuvole la Terra stava accomiatandosi dal ventesimo secolo. Nelle città splendenti, man mano che la mezzanotte si spostava attorno al mondo, la folla sarebbe stata in attesa del primo rintocco dell’ora che li avrebbe separati per sempre dall’anno vecchio e dal secolo vecchio.
Cento anni come quelli non c’erano mai stati prima, e probabilmente non si sarebbero più ripetuti. A una a una le dighe erano saltate, le ultime frontiere della mente erano state spazzate via. Quando il secolo aveva albeggiato, l’Uomo aveva cominciato a prepararsi alla conquista dell’aria; alla sua fine l’Uomo stava raccogliendo le forze su Marte per balzare verso i pianeti esterni. Solo Venere continuava a tenerlo a bada, perché non era ancora stata costruita una nave spaziale in grado di scendere in mezzo alle tempeste di convezione che imperversavano perennemente tra l’emisfero illuminato dalla luce del Sole e l’oscurità della Faccia Notturna. Da una distanza di sole cinquecento miglia, gli schermi radar avevano mostrato lo schema di continenti e mari che stavano sotto quelle nubi sfreccianti — e Venere, non Marte, era diventata il grande enigma del Sistema Solare.
Mentre salutava il secolo morente, il professor Alexson non provava rimpianti: il futuro, era troppo pieno di meraviglie e di promesse. Di nuovo le orgogliose navi spaziali stavano veleggiando verso terre sconosciute, portando i semi di nuove civiltà che, nelle età a venire, avrebbero superato quella vecchia. La corsa ai nuovi mondi avrebbe distrutto le soffocanti restrizioni che avevano avvelenato quasi mezzo secolo. Le barriere erano state infrante e gli uomini avrebbero potuto dirigere le proprie energie verso le stelle, invece che combattersi l’un l’altro.
Uscito dalle paure e dalle miserie della Seconda Età Buia, e liberatosi — oh fosse per sempre! — delle ombre di Hiroshima e dei lager nazisti, il mondo stava dirigendosi verso la sua più splendida alba. Dopo cinquecento anni, c’era un nuovo Rinascimento. L’alba che sarebbe spuntata sugli Appennini alla fine della lunga notte lunare non sarebbe stata più radiosa dell’età che era appena incominciata.