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Allora non avrebbe avuto importanza se qualcosa fosse andato male. Il sistema solare si sarebbe limitato ad acquisire un secondo sole e piuttosto provvisorio. L’ADA voleva anche che noi abbandonassimo i pericolosi prodotti di fissione delle pile, che erano troppo radioattivi perché si potessero tenere sulla Terra, ma che un giorno avrebbero potuto essere utili.

«La seconda ragione non era altrettanto spettacolare, ma era forse di importanza ancor più immediata. Le grandi società radiofoniche e telegrafiche dovevano assolutamente uscire nello spazio, questo era l’unico modo in cui avrebbero potuto diffondere la televisione in tutto il mondo e fornire un servizio universale di comunicazione. Come ben sapete, le onde cortissime del radar e della televisione non assecondano la curvatura della Terra, ma viaggiano in linee praticamente rette, di modo che una stazione può mandare segnali solo fino all’orizzonte. Per superare questa difficoltà erano stati costruiti dei relé aerotrasportati, ma ci si rese conto che la soluzione finale sarebbe stata raggiunta solo quando fosse stato possibile costruire stazioni di ripetitori a migliaia di miglia sopra la Terra, lune artificiali che probabilmente avrebbero viaggiato in orbite di ventiquattro ore, cosicché sarebbero apparse ferme nel cielo. Senza dubbio voi avete letto tutto su queste idee, quindi ora non mi dilungherò su di esse.

«E così, entro il 1970 circa ottenemmo il sostegno di alcune delle più grandi organizzazioni tecniche mondiali, con fondi praticamente illimitati. Erano state costrette a venire da noi, perché noi avevamo tutti gli esperti. Inizialmente purtroppo vi furono alcuni contrasti, e i Dipartimenti di Ricerca non ci hanno mai del tutto perdonato per aver sottratto loro tutti i migliori scienziati. Ma, nel complesso, andavamo abbastanza d’accordo con la ADA, la Westinghouse, la General Electric, la B.T.H. e le altre. Come probabilmente avrete notato, tutte hanno qui dei loro uffici. Sebbene ci diano sovvenzioni molto sostanziose, i servizi tecnici che ci forniscono sono assolutamente impagabili. Non penso che senza il loro aiuto saremmo arrivati dove siamo in vent’anni.»

Seguì una breve pausa. E Dirk emerse da quel torrente di parole come uno spaniel che arranchi faticosamente fuori da un ruscello di montagna. McAndrews parlava troppo in fretta, ripetendo ovviamente frasi e interi paragrafi che riproponeva da anni.

Dirk ebbe l’impressione che quasi tutto ciò che l’altro aveva detto provenisse da altre fonti e non fosse affatto originale.

«Non avevo idea» disse «di quanto fossero estese le vostre ramificazioni.»

«Credetemi, questo è ancora nulla!» esclamò McAndrews. «Penso che non esistano molte grandi industrie che non siano convinte che noi possiamo aiutarle in qualche modo. Le società di cavi risparmieranno centinaia di milioni quando potranno sostituire le loro stazioni e linee di terra con alcuni ripetitori nello spazio; l’industria chimica sarà…»

«Oh, non lo metto in dubbio! Mi stavo chiedendo da dove venisse tutto il denaro e adesso capisco di che cosa grossa si tratta.»

«Non dimenticate» lo interruppe Matthews, che se n’era stato seduto in un silenzio rassegnato «il nostro più importante contributo all’industria.»

«E cioè?» chiese Dirk.

«La possibilità di fornire vuoto ad alta gradazione per riempire lampadine elettriche e tubi elettronici.»

«Tralasciando le solite facezie di Alfred» disse McAndrews in tono severo «è perfettamente vero che quando potremo costruire laboratori nello spazio la fisica in generale farà tremendi passi avanti. E potete immaginare con quanta impazienza gli astronomi attendono di avere osservatori che non siano mai disturbati dalle nuvole.»

«Io so adesso» disse Dirk contando sulla punta delle dita ««come» sia nata la Interplanetary, e anche che cosa spera di fare. Ma trovo tuttora assai difficile definire esattamente che cosa è.»

«Giuridicamente è un’organizzazione senza scopo di lucro («E come!» interferì Matthews sottovoce) il cui obiettivo è, come dice il suo statuto, «di effettuare ricerche sul volo spaziale!». Originariamente aveva ottenuto i fondi dalla Spaceward, ma questa non ha più legami ufficiali con noi, ora che è collegata alla National Geographic — anche se ne ha moltissimi non ufficiali. Oggi la maggior parte del denaro di cui disponiamo proviene da sovvenzioni governative e da società industriali. Quando i viaggi interplanetari avranno raggiunto la commercializzazione, come l’aviazione attuale, probabilmente noi evolveremo in qualcosa di diverso. Tutta questa faccenda presenta un mucchio di angolazioni politiche e nessuno può dire cosa succederà quando si comincerà a colonizzare i pianeti.»

McAndrews fece una risatina, un po’ di scusa, un po’ di difesa.

«Come probabilmente verrete a scoprire, in questo posto circolano molti sogni. Ci sono persone che pensano di dare l’avvio alla realizzazione di utopie scientifiche su mondi adeguati, e ogni sorta di cose del genere. Ma lo scopo immediato è puramente tecnico: dobbiamo scoprire come sono i pianeti, prima di decidere in che modo usarli.»

Nell’ufficio calò il silenzio e per un attimo nessuno parve aver voglia di parlare. Per la prima volta Dirk si rese conto di quanto veramente immenso fosse l’obiettivo per il quale tutta quella gente lavorava. Si sentiva sopraffatto e piuttosto impaurito. L’umanità era pronta ad essere scaraventata nello spazio, pronta ad affrontare la sfida di mondi spogli e inospitali, mai conosciuti dall’uomo? Non poteva esserne sicuro, e nella profondità della propria mente si sentiva terribilmente turbato.

5

Visto dalla strada, il 53 di Rochdale Avenue, S.W.5 sembrava una di quelle residenze in stile neogiorgiano che gli agenti di borsa di maggior successo dell’inizio del ventesimo secolo avevano eretto a rifugio della propria vecchiaia. L’edificio era piuttosto arretrato rispetto alla strada, con prati e aiuole disposti con gusto, ma piuttosto trascurati. Quando il tempo era bello, come di tanto in tanto avvenne nella primavera del 1978 qualche volta si potevano vedere cinque giovanotti che eseguivano maldestri lavori di giardinaggio con attrezzi inadeguati. Era evidente che lo facevano solo per rilassarsi e che la loro mente era molto lontana da lì, quanto un passante mai avrebbe potuto indovinare.

Era stato un segreto molto ben conservato, in gran parte perché gli stessi organizzatori del servizio di sicurezza erano ex giornalisti. Per quanto si sapeva, l’equipaggio della «Prometheus» non era stato ancora scelto, mentre di fatto il suo addestramento era iniziato più di un anno prima. Era proseguito con sommessa efficienza, a meno di cinque miglia da Fleet Street e purtuttavia assolutamente al riparo dalla curiosità sfrenata del pubblico.

Era improbabile che vi fosse mai stata al mondo più di una manciata di uomini in grado di pilotare una nave spaziale.

Nessun altro lavoro aveva mai richiesto quell’unica combinazione di caratteristiche fisiche e mentali. Il pilota perfetto doveva non solo essere un astronomo di prima classe, un esperto in ingegneria e uno specialista in elettronica, ma anche essere in grado di operare efficientemente sia quando era «in assenza di peso» sia quando l’accelerazione del razzo lo faceva pesare un quarto di tonnellata.

Nessun singolo individuo avrebbe potuto soddisfare queste esigenze e vari anni prima era stato deciso che l’equipaggio di una nave spaziale doveva consistere di almeno tre uomini, due dei quali avrebbero dovuto essere in grado di rilevare i compiti del terzo in caso di emergenza.

L’Interplanetary ne stava addestrando cinque; due erano riserve, in caso di qualche malattia sopraggiunta all’ultimo momento.

Nessuno finora sapeva quali sarebbero state le due riserve.

Pochi dubitavano che Victor Hassell sarebbe stato il comandante.

A ventott’anni, era l’unico uomo al mondo ad aver accumulato oltre cento ore in caduta libera. Questo record era stato puramente accidentale. Due anni prima Hassell aveva portato in orbita un razzo sperimentale e aveva fatto trenta volte il giro della Terra prima di riuscire a riparare il guasto che si era creato nei circuiti di accensione, e a ridurre la velocità a sufficienza per tornare alla base. Il suo rivale più prossimo, Pierre Leduc, aveva a proprio merito solo venti ore di volo orbitale.