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I primi dei suoi seguaci — malconci, sporchi, coperti di sangue ed esausti — raggiunsero la sommità della sporgenza. Indossavano abiti logori. Abiti che non li elevavano al di sopra degli altri. Abiti di semplicità e bontà.

Il Profeta li contò. Meno di cento. Così pochi. Questa maledetta foresta era proprio buia, malgrado la luce del sole. Grossi tronchi stavano uno contro l’altro e il cielo sopra di loro si era fatto più fosco per via delle nuvole. Il sottobosco di arbusti di erbossa dai rametti sottili era aggrovigliato assieme, formando una barriera quasi innaturale, e quegli arbusti gli graffiavano la pelle come artigli.

Con quel sottobosco e il ripido pendio terroso, l’esercito non poteva seguirlo da questa parte. Anche se il Profeta era fuggito dall’accampamento di Aybara nemmeno un’ora prima, si sentiva già al sicuro. Sarebbero andati a nord, dove Aybara e i suoi Amici delle Tenebre non li avrebbero trovati. Lì il Profeta avrebbe potuto ricostruire. Era rimasto con Aybara solo perché i suoi seguaci erano stati abbastanza forti da tenere a bada gli Amici delle Tenebre di Aybara. I suoi cari seguaci. Uomini coraggiosi e sinceri, tutti quanti. Uccisi da Amici delle Tenebre. Li pianse, chinando il capo e borbottando una preghiera. I suoi seguaci si unirono a lui. Erano esausti, ma la luce dello zelo brillava nei loro occhi. Chiunque fosse debole o mancasse di dedizione era fuggito o era stato ucciso molto tempo fa. Questi erano i migliori, i più forti, i più fedeli. Ciascuno aveva ucciso molti Amici delle Tenebre nel nome del Drago Rinato.

Con loro avrebbe potuto ricostruire. Ma prima doveva sfuggire ad Aybara. Ora il Profeta era troppo debole per affrontarlo. Ma in seguito lo avrebbe ucciso. Sì… Dita su quel collo… Sì… Il Profeta riusciva a ricordare un tempo in cui aveva avuto un nome diverso. Masema. Quei giorni per lui diventavano sempre più indistinti, come ricordi di una vita precedente. In effetti, proprio come tutti gli uomini rinascevano nel Disegno, così Masema era rinato: si era liberato della sua vecchia vita profana ed era diventato il Profeta.

Gli ultimi suoi seguaci si unirono a lui in cima alla parete del dirupo. Lui sputò ai loro piedi. Lo avevano deluso. Codardi. Avrebbero dovuto combattere meglio! Sarebbe dovuto riuscire a conquistare quella città.

Si voltò verso nord e si spinse avanti. Il paesaggio gli stava diventando familiare, anche se non avevano nulla del genere su fra le Marche di Confine. Si sarebbero inerpicati per le regioni montane, poi le avrebbero varcate per entrare nella Piana di Almoth, Lì c’erano Fautori del Drago, seguaci del Profeta, anche se molti non lo conoscevano. Lì avrebbe potuto ricostruire in fretta.

Si fece strada attraverso una macchia di cupa vegetazione ed entrò in una piccola radura. I suoi uomini lo seguirono rapidi. Presto avrebbero avuto bisogno di cibo e lui avrebbe dovuto mandarli a caccia. Niente fuochi. Non potevano permettersi di allertare…

«Salve, Masema» disse una voce sommessa.

Lui si voltò con un sibilo, mentre i suoi seguaci si assiepavano attorno a lui ed estraevano le armi. Spade per alcuni, coltelli, bastoni da guerra e qualche arma ad asta per altri. Il Profeta scrutò la radura nella fosca luce pomeridiana, cercando chi aveva parlato. La trovò in piedi su un piccolo affioramento di roccia a poca distanza, una donna con un prominente naso saldeano, occhi leggermente storti e capelli neri lunghi fino alle spalle. Fra vestita di verde, con gonne divise per cavalcare e le braccia conserte.

Faile Aybara, moglie della Progenie dell’Ombra, Perrin Aybara. «Prendetela!» urlò il Profeta indicandola. Diversi suoi seguaci si fecero avanti, ma i più esitarono. Avevano visto quello che lui non aveva notato. Ombre nella foresta dietro la moglie di Aybara, disposte a semicerchio. Erano sagome di uomini, con archi puntati verso la radura.

Faile fece un cenno netto con la mano e le frecce volarono. Quelli tra i suoi seguaci che avevano corso al suo comando caddero per primi, urlando nella foresta silenziosa prima di crollare sul terreno argilloso. Il Profeta mugghiò, provando come la sensazione che ognuna di quelle frecce trapassasse il suo corpo. I suoi amati seguaci! I suoi amici! I suoi cari fratelli!

Una freccia si conficcò dentro di lui, scagliandolo all’indietro per terra. Attorno a lui uomini morirono proprio come era accaduto prima. Perche, perché il Drago non li aveva protetti? Perche? All’improvviso tutto quell’orrore gli tornò alla mente, quel soverchiante terrore di vedere i suoi uomini cadere a ondate, di guardarli morire per mano di quegli Amici delle Tenebre Aiel.

Era colpa di Perrin Aybara. Se solo il Profeta l’avesse capito prima, nei giorni addirittura precedenti a quando aveva riconosciuto il lord Drago per ciò che era in realtà !

«È colpa mia» mormorò il Profeta mentre gli ultimi dei suoi seguaci morivano. C’erano volute parecchie frecce per fermarli. Questo lo rendeva orgoglioso.

Lentamente, si costrinse a rimettersi in piedi, con una mano sulla spalla dove spuntava la freccia. Aveva perso troppo sangue. Intontito, crollò in ginocchio.

Faile scese dalla roccia ed entrò nella radura. Due donne con indosso dei pantaloni la seguirono. Parevano preoccupate, ma Faile ignorò le loro proteste che rimanesse indietro. Si avvicinò al Profeta, poi estrasse il coltello dalla sua cintura. Era un’ottima lama, con un’impugnatura foggiata come una testa di lupo. Era una bene. Guardandola, il Profeta si ricordò il giorno in cui si era guadagnato la sua prima lama. Il giorno in cui suo padre gliel’aveva data.

«Grazie per il tuo aiuto nell’attacco a Malden, Masema» disse Faile, fermandosi proprio di fronte a lui. Poi si protese in avanti e gli conficcò quel coltello nel cuore. Lui cadde all’indietro. Il suo sangue caldo gli si spandeva sul petto.

«A volte una moglie deve fare quello che non può fare suo marito» sentì Faile dire alle sue donne mentre le palpebre gli tremolavano cercando di chiudersi. «Quello che abbiamo fatto oggi è stato tremendo, ma necessario. Che nessuno ne parli a mio marito. Non dovrà mai sapere.»

La sua voce si fece distante. Il Profeta cadde.

Masema. Quello era stato il suo nome. Si era guadagnato la sua spada il giorno del suo quindicesimo compleanno. Suo padre era stato così orgoglioso.

È finita, dunque, pensò, incapace di tenere gli occhi aperti. Li chiuse, ritrovandosi come a cadere in un vuoto senza fine.

Ho agito bene, padre, oppure ho fallito?

Non ci fu risposta. E divenne un tutt’uno con quel vuoto, precipitando in un mare di oscurità sconfinata.

1

Lacrime dall’acciaio

La Ruota del Tempo gira e le Epoche si susseguono, lasciando ricordi che divengono leggenda. La leggenda sbiadisce nel mito, ma anche il mito è ormai dimenticato quando ritorna l’Epoca che lo vide nascere. In un’Epoca chiamata da alcuni Epoca Terza, un’Epoca ancora a venire, un’Epoca da gran tempo trascorsa, il vento si levò attorno al pinnacolo di alabastro noto come la Torre Bianca. Il vento non era l’inizio. Non c’è inizio ne fine al girare della Ruota del Tempo. Ma fu comunque un inizio.

Il vento turbinò attorno alla splendida Torre, sfiorando pietre perfettamente incastrate e agitando maestosi stendardi. In qualche modo quella struttura era aggraziata e poderosa allo stesso tempo; una metafora, forse, per coloro che la abitavano da oltre tremila anni. Pochi di quelli che posavano gli occhi sulla Torre avrebbero immaginato che al suo interno era corrotta e spezzata. Divisa.

Il vento soffiò, passando attraverso una città che pareva più un’opera d’arte che non un’ordinaria capitale. Ogni edificio era un prodigio; perfino il granito attorno alle vetrine dei negozi era stato lavorato da meticolose mani ogier per evocare bellezza e meraviglia. Qui una cupola richiamava la forma di un sole nascente. Lì una fontana zampillava dal tetto stesso di un edificio, sormontando quelle che sembravano due onde che si infrangevano. Su una strada lastricata, un paio di scoscesi palazzi a tre piani stavano uno di fronte all’altro, e ciascuno era costruito con le sembianze di una fanciulla. Quelle creazioni di marmo — per metà statue, per metà abitazioni — protendevano l’una verso l’altra delle mani di pietra come in saluto, con i capelli che ondeggiavano dietro di loro, immobili eppure intagliati con una delicatezza tale che ogni ciocca sembrava fluttuare al passaggio del vento.