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Le strade stesse erano molto meno impressionanti. Oh, erano state disposte con cura, irradiandosi dalla Torre Bianca come raggi solari. Eppure quella luce era offuscata da disordine e sporcizia, indizi dell’affollamento che l’assedio aveva causato. E forse l’affollamento non era l’unica ragione per quello sfacelo. I tendoni e le insegne dei negozi non erano stati puliti o lucidati da parecchio tempo. L’immondizia marciva ammassata nei vicoli dove era stata gettata, attirando mosche e ratti ma allontanando chiunque altro. Agli angoli di strada dondolavano loschi figuri. Una volta non avrebbero osato farlo, e di certo non con quella arroganza.

Dov’era la Torre Bianca, la legge? Giovani sciocchi ridevano, dicendo che i problemi della città erano colpa dell’assedio e che le cose si sarebbero sistemate, una volta represse le ribelli. Gli anziani scuotevano le loro teste striate di grigio e borbottavano che le cose non erano mai andate così male, perfino quando i selvaggi Aiel avevano assediato Tar Valon all’inarca vent’anni prima.

I mercanti ignoravano sia i vecchi che i giovani. Avevano i loro problemi, soprattutto al Porto Sud, dove il commercio via fiume per la città aveva quasi subito un arresto. Operai dal petto possente faticavano sotto gli occhi di una Aes Sedai con uno scialle frangiato di rosso; lei usava l’Unico Potere per rimuovere protezioni e indebolire la pietra, mentre gli operai facevano a pezzi la roccia e la portavano via.

Quegli uomini avevano le maniche rimboccate, che mettevano in mostra ricciuti peli scuri su braccia nerborute mentre vibravano una piccozza o un martello contro le antiche pietre. Il loro sudore colava sulle rocce o nell’acqua sottostante mentre scavavano alle radici della catena che bloccava il passaggio per la città via fiume. Metà di quella catena adesso era di indistruttibile cuendillar, chiamato da alami Pietra dell’Anima. Lo sforzo di strapparla via e consentire di nuovo il passaggio per la città era estenuante; le murature del porto — forti e magnifiche, foggiate dal Potere stesso — erano solo una delle conseguenze più visibili della guerra silenziosa fra le Aes Sedai ribelli e quelle che detenevano la Torre.

Il vento soffiò attraverso il porto, dove gli scaricatori oziavano guardando gli operai fare a pezzetti le pietre, una a una, mandando fiocchi di polvere grigio-biancastra a galleggiare sull’acqua. Quelli con troppo buonsenso — o troppo poco — sussurravano che tali portenti potevano significare una sola cosa: Tarmon Gai’don, l’Ultima Battaglia, si stava avvicinando rapidamente.

Il vento danzò via dai moli, passando sopra gli alti bastioni bianchi noti come le Mura Lucenti. Qui, perlomeno, si poteva trovare pulizia e attenzione nella guardia della Torre che stava di sentinella, con gli archi pronti. Rasati, con addosso tabarri bianchi privi di macchie e segni di usura, gli arcieri sorvegliavano le loro barricate con la pericolosa prontezza di serpenti preparati a colpire. Questi soldati non avevano intenzione di lasciar cadere Tar Valon finche fossero stati in servizio. Tar Valon aveva respinto ogni nemico. I Trolloc avevano fatto breccia nelle mura, ma erano stati sconfitti nella città. Artur Hawkwing non era riuscito a conquistare Tar Valon. Perfino gli Aiel velati di nero, che avevano razziato la terra durante la guerra Aiel, non avevano mai preso la città. Molti la reputavano una grande vittoria. Altri si domandavano cosa sarebbe successo se gli Aiel avessero davvero voluto entrare in città.

Il vento passò sopra il ramo occidentale del fiume Erinin, lasciandosi dietro l’isola di Tar Valon, superando il ponte Alindaer che si ergeva alto sulla destra, come sfidando i nemici ad attraversarlo e morire. Oltre il ponte, il vento spirò dentro Alindaer, uno dei molti villaggi vicino Tar Valon. Quell’insediamento era perlopiù spopolato, dal momento che le famiglie erano fuggite al di là del ponte per cercare rifugio nella città. L’esercito nemico era apparso improvvisamente, senza alcun preavviso, come portato da una tormenta. Pochi si chiedevano come fosse stato possibile. Questo esercito ribelle era guidato da Aes Sedai, e coloro che vivevano all’ombra della Torre Bianca di rado scommettevano su quello che le Aes Sedai potevano o non potevano fare.

L’esercito ribelle era pronto ma incerto. Forte di oltre cinquantamila uomini, era accampato in uno smisurato cerchio di tende attorno al campo più piccolo delle Aes Sedai. C’era un perimetro più stretto fra il campo interno e quello esterno, un perimetro che molto di recente era stato eretto con l’intenzione di escludere gli uomini, in particolare quelli in grado di maneggiare saidin.

Si sarebbe quasi potuto pensare che questo accampamento di ribelli intendesse stabilirsi in modo permanente. C’era un’aria di quotidianità in tutte le faccende che venivano svolte. Alcune figure in bianco si muovevano in un continuo andirivieni: alcune indossavano formali abiti da novizie, molte altre erano vestite in modo un po’ più approssimativo. Guardando attentamente, si poteva vedere che parecchie di esse erano tutt’altro che giovani. Alcune avevano già i capelli grigi. Ma venivano chiamate ‘bambine’, ed erano obbedienti nel lavare vestiti, battere tappeti e pulire tende sotto gli occhi di Aes Sedai dai volti sereni. E se quelle Aes Sedai lanciavano occhiate con insolita frequenza al profilo simile a un chiodo della Torre Bianca, ci si sarebbe sbagliati nel ritenere che fossero nervose o a disagio. Le Aes Sedai avevano tutto sotto controllo. Sempre. Perfino ora, quando avevano subito una sconfitta non facile da digerire: Egwene al’Vere, l’Amyrlin Seat delle ribelli, era stata catturata e imprigionata all’interno della Torre.

Il vento diede buffetti a qualche vestito, fece cadere qualche capo di bucato da dov’era appeso, poi proseguì con impeto verso ovest. Verso ovest, oltre il torreggiante Montedrago, con la sua vetta spaccata e fumante. Sopra le Colline Nere e lungo l’estesa Prateria di Caralain. Qui sacche di neve riparata si aggrappavano alle ombre sotto strapiombi scoscesi o accanto all’occasionale macchia di palissandri montani. Era tempo che arrivasse la primavera, tempo che nuovi germogli facessero capolino fra la coltre invernale e che delle gemme sbocciassero sugli esili rami dei salici. Poche di queste cose erano davvero spuntate. La terra era ancora dormiente, come in attesa, trattenendo il fiato. Il calore innaturale dell’autunno precedente si era protratto per buona parte dell’inverno, opprimendo la terra con una siccità che aveva sottratto la vita a tutte le piante tranne quelle più vigorose. Quando finalmente l’inverno era arrivato, lo aveva fatto con una tempesta di ghiaccio e neve, un gelo incombente e assassino. Ora che il freddo si era finalmente ritirato, i confusi agricoltori cercavano invano una speranza. Il vento soffiò sull’erba scurita dall’inverno, scuotendo i rami ancora spogli degli alberi. A ovest, mentre si avvicinava alla terra conosciuta come Arad Doman — sormontando colline e basse vette — qualcosa sbatte all’improvviso contro di esso. Qualcosa di invisibile, qualcosa generato dall’oscurità distante a nord. Qualcosa che scorreva contro il flusso e le naturali correnti dell’aria. Il vento ne fu consumato, spinto verso sud in un refolo, sopra bassi picchi e pendii bruni, fino a un maniero in legno, isolato, posto sulle colline dense di pini nell’Arad Doman orientale. Il vento soffiò sopra il maniero e le tende montate nell’ampio campo aperto davanti a esso, scuotendole assieme ad aghi di pino.

Rand al’Thor, il Drago Rinato, era in piedi, con le mani dietro la schiena mentre guardava fuori dalla finestra aperta del maniero. Pensava ancora a esse a quel modo, le sue ‘mani’, anche se ora ne aveva solo una. Il suo braccio sinistro terminava in un moncherino. Poteva avvertire la liscia pelle guarita da saidar con le dita della sua mano sana. Eppure sentiva come se l’altra mano fosse lì per essere toccata.