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Silviana esitò, poi iniziò con le cinghiate. Stranamente, Egwene non provò alcun desiderio di gridare. Faceva male, certo, ma non riusciva proprio a urlare. Quanto era ridicola quella punizione!

Si ricordò il suo dolore nel vedere le Sorelle percorrere i corridoi, scrutandosi a vicenda con paura, sospetto e diffidenza. Si ricordò la sofferenza nel servire Elaida mentre teneva a bada la lingua. E si ricordò il puro terrore all’idea che chiunque nella Torre venisse vincolato dal giuramento di obbedire a un simile tiranno.

Egwene si ricordò la compassione per la povera Meidani. Nessuna Sorella meritava un trattamento simile. Essere imprigionata era una cosa. Ma mortificare una donna, giocare con lei, lasciar intendere una prossima tortura? Era intollerabile.

Ciascuna di queste cose costituiva un dolore dentro Egwene, un coltello nel petto che le perforava il cuore. Mentre le cinghiate continuavano, si rese conto che nulla di quello che potevano fare al suo corpo sarebbe stato mai paragonabile al dolore che provava nella sua anima al vedere la Torre Bianca soffrire sotto la mano di Elaida. Confrontata con quei tormenti inferiori, la punizione era ridicola.

E così iniziò a ridere.

Non era una risata forzata. Era una risata di sfida. Era la risata dello stupore. Dell’incredulità. Come potevano pensare che picchiarla avrebbe risolto qualcosa? Era assurdo!

Le cinghiate si fermarono. Egwene si voltò. Di certo la punizione non era conclusa!

Silviana la stava osservando con espressione preoccupata. «Bambina» chiese. «Tutto bene?»

«Sto piuttosto bene.»

«Ne… ne sei certa? I tuoi pensieri?»

Pensa che mi sia spezzata sotto lo sforzo, si rese conto Egwene. Lei mi picchia e io rido.

«I miei pensieri sono a posto» disse Egwene. «Non rido perché sono stata spezzata, Silviana. Rido perché picchiarmi è assurdo.»

L’espressione della donna si rabbuiò.

«Non riesci a capire?» chiese Egwene. «Non senti il dolore? L’agonia di guardare la Torre crollare attorno a te? Come può una punizione essere paragonata a questo?»

Silviana non rispose.

Io capisco, pensò Egwene. Non mi ero resa conto di cosa facevano gli Aiel. Supponevo di dover soltanto essere più dura e che questo mi avrebbe insegnato a ridere davanti al dolore. Ma non si tratta affatto di durezza. Non è la forza a farmi ridere. È la comprensione.

Lasciar cadere la Torre, lasciar fallire le Aes Sedai… il dolore di tutto questo l’avrebbe distrutta. Doveva impedirlo, poiche lei era l’Amyrlin Seat.

«Non posso rifiutare di punirti» disse Silviana. «Te ne rendi conto.»

«Ma certo» disse Egwene. «Ma per favore, ricordami qualcosa. Cos’è che hai detto su Shemerin? Perche Elaida l’ha passata liscia quando le ha tolto lo scialle?»

«È stato perché Shemerin l’ha accettato» rispose Silviana.

«Si comportava come se avesse davvero perso lo scialle. Non si è opposta.»

«Io non commetterò lo stesso errore, Silviana. Elaida può dire quello che vuole. Ma questo non cambia ciò che sono io o chiunque di noi. Perfino se cercasse di cambiare i Tre Giuramenti, ci saranno quelle che resisteranno, che rimarranno fedeli a ciò che è giusto. E così, quando tu mi picchi, tu picchi l’Amyrlin Seat. E questo dovrebbe essere tanto divertente da farci ridere entrambe.»

La punizione continuò ed Egwene abbracciò il dolore, lo accolse dentro di se e lo giudicò insignificante, impaziente che la punizione terminasse. Aveva molto lavoro da fare.

3

Le vie dell’onore

Aviendha si accucciò con le sue sorelle della lancia e alcuni esploratori del Vero Sangue in cima alla bassa collina erbosa, guardando in basso verso i profughi. Erano una misera marmaglia, questi abitanti delle terre bagnate domanesi, con facce sporche che da mesi non vedevano una sauna e i loro figli emaciati troppo affamati per piangere. Un mulo malnutrito tirava un unico carretto fra quel centinaio di persone arrancanti. Procedevano lenti verso nordest lungo un tragitto che non poteva essere definito una strada. Forse c’era un villaggio in quella direzione. Forse stavano solo fuggendo dall’incertezza delle terre costiere.

Il paesaggio collinare era aperto tranne per l’occasionale macchia d’alberi. I profughi non avevano visto Aviendha e i suoi compagni, malgrado il fatto che si trovassero a meno di cento passi di distanza. Non aveva mai capito come gli abitanti delle terre bagnate potessero essere così ciechi. Non riuscivano a capire che viaggiare così vicino a una collina praticamente invitava gli esploratori a spiarli? Avrebbero dovuto occupare la sommità del colle con i propri esploratori prima di avvicinatisi.

Forse non gliene importava? Aviendha fu percorsa da un brivido. Come si poteva non curarsi di occhi che ti osservavano, occhi che potevano appartenere a un uomo o una Fanciulla con in mano una lancia? Erano così desiderosi di svegliarsi dal sogno? Aviendha non temeva la morte, ma c’era una differenza enorme fra l’accoglierla e il desiderarla.

Le città , pensò, sono il problema. Le città erano luoghi puzzolenti e marci, come piaghe che non guarivano mai. Alcune erano migliori di altre — Elayne faceva un lavoro ammirevole a Caemlyn —, ma anche le migliori radunavano troppe persone e insegnavano loro a essere a proprio agio rimanendo in un solo posto. Se quei profughi fossero stati abituati a viaggiare e avessero imparato a usare i propri piedi, piuttosto che affidarsi ai cavalli come spesso facevano gli abitanti delle terre bagnate, non avrebbero avuto grandi difficoltà a lasciare le loro cittadine. Fra gli Aiel gli artigiani erano addestrati a difendersi, i bambini potevano sopravvivere dei frutti della terra per giorni e perfino i fabbri potevano coprire in breve tempo lunghe distanze. Un’intera setta poteva mettersi in marcia entro un’ora, portando tutto il necessario sulle schiene.

Gli abitanti delle terre bagnate erano strani, senza dubbio. Tuttavia Aviendha provò compassione per i profughi. Quell’emozione la sorprese. Per quanto non fosse senza cuore, il suo dovere era altrove, con Rand al’Thor. Non aveva motivo di sentirsi affranta per un gruppo di abitanti delle terre bagnate che non aveva mai incontrato. Ma il tempo trascorso con la sua sorella prima, Elayne Trakand, le aveva insegnato che non erano tutti molli e deboli. Solo la maggior parte. C’era ji nel prendersi cura di coloro che non erano in grado di badare a se stessi.

Osservando questi profughi, Aviendha cercò di vederli come avrebbe fatto Elayne, ma ancora si sforzava di capire il modo in cui Elayne comandava. Non era alla maniera semplice in cui si capeggiava un gruppo di Fanciulle in una scorreria: quello era istintivo ed efficiente. Elayne non avrebbe guardato questi profughi in cerca di pericolo o soldati nascosti. Elayne avrebbe sentito una responsabilità di aiutarli, perfino se non facevano parte del suo popolo. Avrebbe trovato un modo per mandare del cibo, forse usando le sue truppe per mettere in sicurezza una zona dove potessero stanziarsi… e, nel farlo, avrebbe acquisito un pezzo di questo Paese per se.

Una volta, Aviendha avrebbe lasciato questi pensieri ai capiclan e alle padrone di casa. Ma lei non era più una Fanciulla e lo aveva accettato. Ora viveva sotto un tetto diverso. Provava vergogna per aver resistito al cambiamento così a lungo.

Ma questo la lasciava con un problema. Quale onore cera qui per lei ora? Non era più una Fanciulla, non era ancora una Sapiente. La sua identità era stata avvolta in quelle lance, il suo lo forgiato nel loro acciaio proprio come il carbone che le aveva rafforzate. Era cresciuta fin dall’infanzia con la convinzione che sarebbe stata Far Dareis Mai. In effetti si era unita alle Fanciulle non appena possibile. Era stata orgogliosa della sua vita e delle sue sorelle della landa. Avrebbe servito il suo clan e la sua setta fino al giorno in cui sarebbe stata trafitta da una landa, versando la sua ultima acqua sul suolo riarso della Terra delle Tre Piegature. Questa non era la Terra delle Tre Piegature, e lei aveva udito alcuni algai’d’siswai domandarsi se gli Aiel vi avrebbero mai fatto ritorno. Le loro vite erano cambiate. Non si fidava del cambiamento. Non poteva essere individuato o trafitto; era più silenzioso di qualunque esploratore, più mortale di qualunque assassino. No, non si sarebbe mai fidata del cambiamento, ma l’avrebbe accettato. Avrebbe appreso i modi di Elayne e il modo di pensare di un capo.