Un’ora più tardi aveva attizzato il fuoco. Non era esperto come Thulin, ma aveva appreso da suo padre che essere capace di lavorare un poco i metalli faceva una grossa differenza. A volte non si potevano sprecare ore per andare e tornare dalla città solo per aggiustare un cardine rotto.
Le nubi erano ancora lì. Cercò di non guardarle mentre lasciava la forgia e si dirigeva nel granaio. Quelle nubi erano come occhi, che sbirciavano da sopra la sua spalla.
Dentro il granaio la luce filtrava attraverso crepe sulla parete, cadendo su polvere e fieno.
Aveva costruito lui stesso quella struttura, circa venticinque anni prima. Continuava ad avere intenzione di rimpiazzare alcune di quelle travi del tetto incurvate, ma ora non ci sarebbe stato tempo.
Giunto alla parete degli attrezzi, allungò una mano verso la sua terza miglior falce, poi si fermò. Trasse un profondo respiro e prese invece dal muro la migliore. Tornò fuori alla forgia e le tolse l’impugnatura.
Mentre gettava da parte il legno, Veshir — il più anziano dei suoi braccianti — si avvicinò tirando un paio di capre. Quando Veshir vide la lama della falce sulla forgia, la sua espressione si rabbuiò. Legò le capre a un palo, poi si diresse verso Renald, ma non disse nulla.
Come fare un’alabarda? Thulin aveva detto che erano buone per strattonare un uomo giù da cavallo. Bene, avrebbe dovuto rimpiazzare il lungo manico ricurvo con un’impugnatura dritta e più lunga di legno di frassino. L’estremità flangiata del manico si sarebbe estesa oltre la parte terminale della lama, foggiata in una punta grezza e rivestita di un pezzo di stagno per una maggiore forza. E poi avrebbe dovuto riscaldare la lama e percuotere la punta fino a mezza strada, formando un gancio che avrebbe potuto strattonare un uomo giù da cavallo e forse ferirlo allo stesso tempo. Fece scivolare la lama in mezzo alle braci ardenti per arroventarla, poi iniziò ad allacciarsi il grembiule.
Veshir rimase li per un minuto circa, a osservare. Infine si fece avanti, prendendo Renald per il braccio. «Renald, cosa stiamo facendo?»
Renald si liberò dalla sua stretta. «Andiamo a nord. La tempesta sta arrivando e noi andiamo a nord.»
«Andiamo a nord solo per una tempesta? Ma è follia!»
Era quasi la stessa cosa che Renald aveva detto a Thulin. Un tuono risuonò in lontananza. Thulin aveva ragione. I raccolti… i cieli… il cibo che si guastava senza preavviso. Renald lo sapeva perfino prima di aver parlato con Thulin. Dentro di se lo sapeva. Questa tempesta non sarebbe passala sopra le loro teste per poi svanire. Doveva essere affrontata.
«Veshir,» disse Renald, tornando al suo lavoro «sei un bracciante in questa fattoria da… quanto, quindici anni, ormai? Sei il primo uomo che ho assunto. Ho sempre trattato bene te e gli altri, non è così?»
«Mi hai trattato bene» disse Veshir. «Ma, che io sia folgorato, Renald, non hai mai deciso di abbandonare la fattoria prima d’ora! Questi raccolti si ridurranno in polvere se li lasciamo. Questa non è un’umida fattoria del Sud. Come possiamo andarcene così?»
«Possiamo,» rispose Renald «perché se non ce ne andiamo, non avrà importanza se avremo seminato o meno.» Veshir si accigliò.
«Figliolo,» disse Renald «tu farai come dico io, e questo è quanto. Và a terminare di radunare il bestiame.»
Veshir si allontanò a grandi passi, ma fece come gli veniva detto. Era un brav’uomo, anche se era una testa calda.
Renald tirò fuori la lama dalle braci. Il metallo era ora incandescente. La appoggiò contro la piccola incudine e iniziò a percuotere la sezione bitorzoluta dove l’angolo inferiore della lama incontrava la barba, appiattendola. Il rumore del martello sul metallo pareva più forte del normale. Riverberava come il fragore del tuono, e i suoni si fusero. Come se ogni colpo del suo martello fosse esso stesso parte della tempesta.
Mentre lavorava, quei rintocchi sembrarono formare delle parole. Come se qualcuno stesse borbottando in fondo alla sua testa. La stessa frase, più e più volte.
La tempesta sta arrivando. La tempesta sta arrivando…
Continuò a martellare, mantenendo il filo sulla falce, ma raddrizzando la lama e formando un uncino alla fine. Ancora non sapeva perché. Ma non aveva importanza.
La tempesta stava arrivando e lui doveva essere pronto.
Mentre osservava i soldati con le gambe incurvate che legavano su una sella il corpo di Tanera avvolto in una coperta, Falendre si oppose all’istinto di ricominciare a piangere e al desiderio di vomita re. Era la più anziana e doveva mantenere un minimo di compostezza se si aspettava che lo facessero anche le altre quattro sul’dam sopravvissute. Cercò di dirsi che aveva visto di peggio, battaglie in cui era morta più di una sola sul’dam, più di una sola damane. Le riportò alla memoria il modo esatto in cui Tanera e la sua Miri avevano incontrato il loro destino, però, e la sua mente si ritrasse da quel pensiero.
Rannicchiata al suo fianco, Nenci piagnucolò mentre Falendre accarezzava la testa della damane e cercava di inviare sensazioni calmanti attraverso l’a’dam. Quello pareva funzionare spesso, ma oggi non così bene. Le sue stesse emozioni erano troppo in subbuglio. Se solo avesse potuto dimenticare che la damane era stata schermata, e da chi. Da cosa. Nenci piagnucolò di nuovo.
«Consegnerai il messaggio come ti ho ordinato?» disse un uomo dietro di lei.
No, non un uomo qualunque. Il suono della sua voce agitò la pozza di succhi gastrici che Falendre aveva nello stomaco. Si costrinse a voltarsi per guardarlo, si obbligò a incontrare quegli occhi freddi e duri. Cambiavano a seconda dell’angolazione della sua testa, ora azzurri, ora grigi, ma erano sempre come gemme lucenti. Falendre aveva conosciuto molti uomini duri, ma ne aveva mai incontrato uno che lo era a tal punto da perdere una mano e solo pochi istanti dopo comportarsi come se avesse perso un guanto? Si inchinò in modo formale, dando uno strattone all’a’dam cosicche Nenci facesse lo stesso. Finora erano state trattate bene, per essere delle prigioniere in quelle circostanze: era stata data loro perfino acqua per lavarsi e, a quanto pareva, non sarebbero rimaste prigioniere a lungo. Eppure chi era in grado di dire cosa poteva far cambiare quella situazione, con quest’uomo? La promessa di libertà poteva far parte di un qualche piano.
«Consegnerò il tuo messaggio con la cura che richiede» esordì Falendre, poi esitò. Quale onorifico aveva usato lei? «Mio lord Drago» si affrettò a concludere. Le parole le seccarono la lingua, ma lui annuì, perciò doveva essere bastato.
Una delle marath’damane apparve attraverso quell’impossibile buco nell’aria. Portava tanti gioielli quanto un membro del Sangue e, addirittura, un puntino rosso nel mezzo della fronte.
«Per quanto hai intenzione di rimanere qui, Rand?» domandò, come se quell’uomo dagli occhi duri fosse un servo, piuttosto che ciò che era. «Quanto siamo vicini a Ebou Dar? Questo posto pullula di Seanchan, sai, e probabilmente fanno volare dei raken tutt’attorno.»
«Ti ha mandato Cadsuane a chiedermelo?» disse lui, e le guance della donna si imporporarono un poco. «Non resteremo ancora molto, Nynaeve. Qualche minuto.»
La giovane donna spostò lo sguardo verso le altre sul’dam e damane, che prendevano tutte ordini da Falendre, fingendo che non ci fossero marath’damane a sorvegliarle e specialmente non uomini con giubbe nere. Le altre si erano rimesse in ordine meglio che potevano. Surya aveva lavalo via il sangue dal proprio volto e da quello della sua Tabi, e Malian le aveva fasciate con lunghi rotoli di garza tanto che sembrava che indossassero dei bizzarri cappelli. Ciar era riuscita a ripulire buona parte del vomito che aveva sporcato la parte anteriore del suo abito.
«Penso ancora che dovremmo Guarirle» disse all’improvviso Nynaeve. «I colpi alla testa possono causare strane conseguenze se non vengono curati subito.»