Mesaana impallidì appena un poco, lanciando un’occhiata a Graendal. Il volto di Demandred si fece rosso, come incredulo che potessero essere interrogati di fronte a un’altra Prescelta. Graendal sorrise verso di loro.
«Sono in una posizione perfetta» disse Mesaana, voltandosi di nuovo verso Moridin con un rapido movimento della testa. «La Torre Bianca e quelle sciocche che la governano saranno mie entro breve tempo. Non consegnerò al nostro Signore Supremo soltanto una Torre Bianca in pezzi, ma tutta una schiera di incanalatrici che, in un modo o nell’altro, serviranno la nostra causa nell’Ultima Battaglia. Stavolta le Aes Sedai combatteranno per noi!»
«Un’affermazione audace» commentò Moridin.
«Farò in modo che accada» disse Mesaana in tono pacato. «I miei seguaci infestano la Torre come una pestilenza invisibile, che si propaga come un’ulcera dentro un uomo dall’aspetto sano. Sono sempre più quelli che si uniscono alla nostra causa. Alcuni intenzionalmente, altri inconsapevolmente. A ogni modo è lo stesso.»
Graendal ascoltava pensierosa. Aran’gar sosteneva che alla fine sarebbero state le Aes Sedai ribelli a prendere il controllo della Torre, anche se Graendal stessa non ne era certa. Chi ne sarebbe uscita vincitrice, la bambina o la sciocca? Aveva importanza?
«E tu?» chiese Moridin a Demandred.
«Il mio dominio è saldo» si limitò a dire Demandred. «Raduno truppe per la guerra. Saremo pronti.»
Graendal fremeva dalla voglia che dicesse qualcosa di piu’, ma Moridin non lo incalzò. Tuttavia era molto più di quello che era riuscita a racimolare da sola. A quanto pareva, Demandred occupava un trono e aveva degli eserciti. Che erano radunati. Gli uomini delle Marche di Confine che marciavano verso est parevano sempre più probabili.
«Voi due potete ritirarvi» disse Moridin.
Mesaana farfugliò qualcosa a quel congedo, ma Demandred si limitò a voltarsi e ad andarsene. Graendal annuì fra se: avrebbe dovuto tenerlo d’occhio. Il Signore Supremo apprezzava l’azione, e spesso coloro che potevano guidare degli eserciti nel suo nome erano ricompensati meglio degli altri. Demandred poteva essere facilmente il suo maggior rivale… dopo Moridin stesso, naturalmente.
Lui non l’aveva congedata, perciò rimase seduta mentre gli altri due si ritiravano. Moridin rimase dov’era, con un braccio appoggiato sulla mensola. Per qualche tempo nella stanza fin troppo nera calò il silenzio, poi entrò un servitore in una linda uniforme rossa, portando due coppe. Fra un uomo orrendo, con la faccia piatta e sopracciglia cespugliose, che non meritava più di un’occhiata passeggera.
Graendal prese un sorso dalla sua coppa e assaporò del vino novello, appena un po’ asprigno, ma piuttosto buono. Stava diventando sempre più difficile trovare del buon vino: il tocco del Signore Supremo sul mondo corrompeva ogni cosa, guastando il cibo e rovinando perfino quello che non sarebbe mai potuto marcire.
Moridin fece cenno al servitore di andarsene senza aver preso la sua coppa. Graendal temette di essere stata avvelenata, naturalmente. Era sempre così quando beveva da una coppa offerta. Comunque non ci sarebbe stata ragione perché Moridin l’avvelenasse: era lui il Nae’blis. Mentre molti di loro opponevano resistenza al mostrare sottomissione a lui, Moridin imponeva sempre più la propria volontà , relegandoli nelle loro posizioni di inferiorità rispetto a lui. Graendal sospettava che, se avesse voluto, avrebbe potuto giustiziarla in qualunque modo gli aggradasse e il Signore Supremo gliel’avrebbe concesso. Perde» bevve e attese.
«Hai ottenuto molto da ciò che hai udito, Graendal?» chiese Moridin.
«Quanto si poteva ottenere» rispose lei cauta.
«So quanto brami le informazioni. Moghedien è sempre stata nota come ‘il ragno’, per come tira i fili da lontano, ma per parecchi versi in questo tu sei migliore di lei. Moghedien tesse cosi tante tele che vi rimane invischiata. Tu sei molto più cauta. Colpisci solo quando è saggio farlo, ma non temi il conflitto. Il Signore Supremo approva la tua intraprendenza.»
«Mio caro Moridin,» disse lei, sorridendo fra se «tu mi lusinghi.»
«Non giocare con me, Graendal» ribatte lui, la sua voce dura. «Ricevi i tuoi complimenti e rimani in silenzio.»
Lei si ritrasse come se fosse stata schiaffeggiata, ma non disse altro.
«Ti ho dato il permesso di ascoltare gli altri due come ricompensa» disse Moridin. «Il Nae’blis è stato scelto, ma ci saranno altre posizioni di somma gloria nel regno del Signore Supremo. Alcune molto più elevate di altre. Oggi hai avuto un assaggio dei privilegi di cui potresti godere.»
«Vivo solo per servire il Signore Supremo.»
«Allora servilo in questo» disse Moridin, guardandola dritto negli occhi. «Al’Thor si dirige nell’Arad Doman. Deve continuare a vivere illeso finche non si potrà confrontare con me nell’ultimo giorno. Ma non gli dev’essere consentito di portare la pace nelle tue terre. Tenterà di ristabilire l’ordine. Devi trovare dei modi per impedire che ciò accada.»
«Sarà fatto.»
«Vai, allora» disse Moridin, con un brusco gesto della mano. Lei si alzò pensierosa e si avviò verso la porta.
«E… Graendal…» disse lui.
Lei esitò, lanciandogli un’occhiata. Moridin era in piedi contro la mensola, dandole quasi la schiena. Pareva che non stesse fissando nulla, solo le pietre nere della parete opposta. Stranamente assomigliava molto ad al’Thor — di cui lei aveva numerosi schizzi tramite le sue spie — quando se ne stava in piedi a quel modo.
«La fine è vicina» disse Moridin. «La Ruota ha scricchiolato per il suo ultimo giro, l’orologio ha perso la sua molla, il serpente sta esalando i suoi ultimi respiri. Lui deve conoscere il dolo re nel suo cuore. Deve conoscere la frustrazione e deve conoscere l’angoscia. Provocagli tutto questo. E sarai ricompensata.»
Graendal annuì, poi si diresse verso il passaggio che era stato aperto per lei, fino alla sua roccaforte tra le colline dell’Arad Doman.
A complottare.
La madre di Kodel Ituralde, sepolta ormai da trentanni nelle colline argillose della sua patria domanese, aveva sempre apprezzato un particolare adagio: ‘Le cose devono sempre peggiorare prima di poter migliorare.’ L’aveva detto quando, da ragazzo, gli aveva strappato via un dente infiammato, che si era procurato mentre giocava a spadate con i ragazzi del villaggio. L’aveva detto quando lui aveva perduto il suo primo amore per un nobilastro che indossava un cappello piumato e le cui mani morbide e la spada ingioiellata dimostravano che non aveva mai visto una vera battaglia. E l’avrebbe detto ora, se fosse stata lì con lui sul crinale, a osservare i Seanchan marciare sulla città annidata nella poco profonda vallata sottostante.
Ituralde studiò la città , Darluna, attraverso il suo cannocchiale, facendo ombra all’estremità con la mano sinistra. Sedeva sul suo castrone silenzioso sotto di lui nella luce della sera. Lui e parecchi dei suoi Domanesi si mantenevano in questa piccola macchia di alberi; ci sarebbe voluta la fortuna del Tenebroso affinche i Seanchan lo individuassero, perfino se anche loro avessero avuto dei cannocchiali.
Le cose dovevano sempre peggiorare prima di poter migliorare. Aveva acceso un fuoco sotto i Seanchan distruggendo i loro depositi di provviste per tutta la Piana di Almoth e fin dentro Tarabon. Perciò non si sarebbe dovuto sorprendere nel vedere un esercito vasto come questo — forte di almeno centocinquantamila unità — che veniva a spegnere quel fuoco. Dimostrava un certo rispetto. Questi invasori Seanchan non lo sottovalutavano. Avrebbe preferito il contrario. Ituralde spostò il suo cannocchiale, esaminando un gruppo di cavalieri fra le forze seanchan. Cavalcavano a due a due, con una donna di ciascuna coppia vestita di grigio, l’altra di rosso e blu. Erano troppo distanti perfino col cannocchiale perché lui potesse distinguere i fulmini ricamati sugli abiti di quelle in rosso e blu, ne poteva vedere le catene che collegavano ogni coppia. Damane e sul’dam.