«Intelligenti queste creature», dichiarò il comandante con voce grave. «Devono disperatamente voler vedere qualcosa di più della nostra nave, oltre alla sola cabina delle comunicazioni, per aver acconsentito a questo scambio di visite prima della battaglia».
«Sì, signore», annuì Tommy. Ma dentro di sé sospettava che Daino, il suo amico che respirava con le branchie, volesse veder lui in carne e ossa, prima che uno di loro, o tutti e due, morissero. E gli parve che tra le due navi avesse preso forma un preciso rituale di cortesie, come quello tra due antichi cavalieri prima d’un torneo, quando si esprimevano l’un l’altro una sincera ammirazione prima di colpirsi con tutte le armi e i colpi a disposizione.
Attesero.
Poi, altre due figure uscirono dalla nebbia: due alieni anch’essi in tute spaziali munite di propulsori. Gli alieni erano più corti degli umani, e le visiere dei loro caschi erano schermate da filtri che escludevano i raggi visibili e gli ultravioletti, che per loro sarebbero stati letali. Non si distingueva niente più, delle loro teste, che un vago profilo.
Il telefono nel casco di Tommy disse, dalla sala comunicazioni della Llanvabon: «Dicono che la loro nave la sta aspettando, signore. La camera d’equilibrio sarà aperta».
La voce del comandante disse a sua volta, in tono grave: «Signor Dort, Lei aveva già visto le loro tute spaziali? Se è così, è sicuro che non stiano trasportando qualcosa di extra, ad esempio bombe?»
«Sì, signore», rispose Tommy. «Ci siamo mostrati il nostro reciproco equipaggiamento per lo spazio. Ora, non si vede altro che roba normale, regolare».
Il comandante fece un gesto ai due alieni. Lui e Tommy Dort continuarono il tuffo verso la nave nera. A occhio nudo non riuscivano a distinguere la nave con molta chiarezza, ma dalla sala comunicazioni giungevano continuamente le istruzioni per ogni cambiamento di direzione.
La nave nera si profilò infine sopra di loro. Era gigantesca, lunga quanto la Llanvabon ma molto più grossa. La camera di equilibrio era aperta. I due uomini in tuta spaziale entrarono e si ancorarono al pavimento con le suole magnetiche degli stivali. Il portello esterno si chiuse. Si udì il sibilo dell’aria che entrava e allo stesso tempo fu innestata la gravità artificiale. Poi, il portello interno si aprì.
Tutto era tenebra. Tommy accese la lampada del suo casco nel medesimo istante del comandante. Poiché gli alieni vedevano nell’infrarosso, una luce bianca sarebbe stata per loro insopportabile. Perciò le luci nei caschi dei due uomini erano rosso-cupo, quello stesso che veniva impiegato per illuminare i pannelli della ’strumentazione, così da non abbacinare occhi che non sopportavano neppure la più piccola scintilla di luce bianca in una visipiastra. C’erano alcuni alieni che li stavano aspettando. Ammiccarono più volte alla luce delle lampade dei caschi. I ricevitori del telefono spaziale dissero all’orecchio di Tommy: «Signori, stanno dicendo che il loro comandante l’aspetta».
Tommy e il comandante si trovavano in un lungo corridoio dal pavimento cedevole. Le loro luci mostravano una gran quantità di dettagli strani.
«Credo che aprirò il mio casco, signore», annunciò Tommy.
Lo fece. L’aria era buona. Stando alle analisi, la percentuale d’ossigeno doveva toccare il trenta per cento rispetto al venti dell’atmosfera terrestre, ma la pressione era minore. Nel complesso, pareva senz’altro adatta a polmoni umani. Anche la gravità artificiale era inferiore a quella mantenuta a bordo della Llanvabon. Il pianeta d’origine degli alieni doveva essere più piccolo della Terra e… stando ai raggi infrarossi… doveva orbitare intorno a un sole rosso-cupo, quasi morto. L’aria aveva strani odori, ma non sgradevoli.
Un’apertura ad arco. Una rampa dello stesso materiale morbido che rivestiva i pavimenti; luci che diffondevano un fioco bagliore rosso-cupo. Come gesto di cortesia, gli alieni avevano aumentato l’intensità di quella parte del loro impianto d’illuminazione. Quella luce certo gli abbagliava, ma era un gesto di riguardo che fece desiderare ancor di più a Tommy che il suo piano andasse in porto.
Il comandante alieno li fronteggiò con quello che a Tommy parve un gesto arguto e deprecatorio insieme. Gli auricolari nel casco dissero: «Il comandante alieno, signore, dice che vi dà il benvenuto con piacere, ma che è riuscito a pensare a un solo modo, purtroppo, in cui il problema creato dall’incontro di queste due navi può venir risolto».
«Intende riferirsi alla battaglia», interloquì il comandante. «Ditegli che sono qui per proporgli un’altra scelta».
Il comandante della Llanvabon e il comandante della nave aliena erano faccia a faccia, ma il loro modo di comunicare era bizzarramente indiretto. Infatti parlavano grazie alle microonde, quasi una forma di telepatia. Ma non potevano udire le parole nel senso ordinario della cosa… per cui anche il comandante della Llanvabon e Tommy parlavano tra loro in un modo che, dal punto di vista degli alieni, era telepatia. Quando il comandante terrestre parlò, il suo telefono spaziale rinviò le sue parole alla Llanvabon, dove qui vennero date in pasto alla codificatrice, dopo di che un loro equivalente sotto forma di onde corte venne rispedito alla nave nera. La risposta del comandante alieno giunse alla Llanvabon, passò attraverso il decodificatore e fu ritrasmessa tramite il telefono spaziale sotto la forma di parole leggibili, lette appunto dai tecnici della comunicazione nell’apposito riquadro. Un sistema scomodo, ma funzionava.
L’alieno basso e tarchiato fece una pausa. Gli auricolari del casco ritrasmisero ai terrestri la sua risposta altrimenti silenziosa: «È pronto, anzi, desideroso di ascoltarla, signore».
Il comandante terrestre si tolse il casco. Portò le mani ai fianchi, assumendo un posa bellicosa.
«Senta un po’!» esclamò, con fare truculento, rivolgendosi alla strana, calva creatura che gli stava davanti, avvolta in un ultraterreno bagliore rosso. «Pare che si debba combattere e che, noi o voi, una delle due parti debba restare uccisa. Siamo pronti a farlo, se sarà necessario. Ma se voi vincerete, abbiamo predisposto le cose in modo che voi non possiate mai scoprire dove si trova la Terra, e c’è una buona probabilità che anche dopo morti si riesca a distruggervi! Ma se vinceremo noi, ci troveremo in un’identica situazione. Ma se noi vinceremo e torneremo a casa, il nostro governo armerà una flotta e comincerà a dar la caccia al vostro pianeta. Se lo troveremo, saremo pronti a farlo saltare in aria! Se vincerete voi, la stessa cosa accadrà a noi! E questa è follia! Siamo qui da un mese, abbiamo continuato a scambiarci informazioni, e nessuno di noi odia l’altro. E non abbiamo nessun motivo di combattere, se non per il futuro degli altri e delle nostre rispettive razze!»
Il comandante si fermò a riprender fiato, corrugando la fronte. Senza dar nell’occhio, anche Tommy portò le mani alla cintura della sua tuta spaziale. Attese, sperando disperatamente che l’espediente funzionasse.
«Ha risposto, signore», riferirono gli auricolari del casco, «che tutto ciò che lei dice è vero. Ma che la sua razza va protetta, proprio come lei ritiene che debba esserlo la sua».
«Certo», sbottò il comandante con rabbia, «ma la cosa davvero sensata da fare è quella d’immaginare un modo efficace di proteggerle! Mettere a repentaglio l’intero futuro in un combattimento è insensato. Come pure il fatto che le nostre razze non debbano essere informate l’una dell’esistenza dell’altra. Invece, ognuna delle due dovrebbe avere prove concrete che l’altra non soltanto esiste, ma non vuole combattere e desidera soltanto essere amica. E noi dovremmo essere in grado, qui, di trovare il modo di comunicare gli uni con gli altri su una base di reciproca fiducia. Se i nostri governi, poi, vorranno esser pazzi, che lo siano pure! Ma noi dovremmo dargli, almeno, la possibilità di diventare amici, invece di cominciare scatenando una guerra spaziale solo perché abbiamo reciprocamente paura!»