Il comandante replicò, senza distogliere gli occhi dalla visipiastra: «Signor Dort, le spiacerebbe uscir fuori e dare un’occhiata da vicino a quel coso? Non posso ordinarglielo, ma… ho bisogno di tutto il mio personale operativo in quest’emergenza. Il personale d’osservazione, invece…»
«È sacrificabile. D’accordo, signore», si affrettò a concludere Tommy. «Non prenderò una scialuppa, signore. Soltanto una tuta con un propulsore. Sarò più piccolo, e in più le braccia e le gambe convinceranno chi guarda che non sono una bomba. Credo che dovrei portare con me un videotrasmettitore…»
La nave aliena continuò a ritirarsi: quaranta, ottanta, quattrocento miglia. Si fermò, e rimase laggiù come appesa, aspettando. Mentre si infilava nella tuta spaziale a propulsione atomica, appena fuori della camera d’equilibrio della Llanvabon, Tommy continuava ad ascoltare i rapporti, man mano venivano trasmessi attraverso gli altoparlanti in tutta la nave. Il fatto che l’altra nave avesse arrestato la sua ritirata a quattrocento miglia di distanza era incoraggiante. Forse non disponeva di armi efficaci oltre quella distanza, e così si sentiva al sicuro. Ma aveva appena pensato questo, che la nave aliena si ritirò a precipizio a una distanza assai maggiore. Il che, rifletté Tommy, quando infine uscì dalla camera di equilibrio nello spazio esterno, poteva esser dovuto al fatto che gli alieni si erano resi conto di essersi traditi… o forse perché volevano dar l’impressione di averlo fatto.
Tommy schizzò via dalla Llanvabon, lucida come uno specchio, attraverso un vuoto che ardeva luminoso e rappresentava, per un essere umano, un’esperienza completamente nuova. Dietro di lui la Llanvabon virò di bordo e sfrecciò via. La voce del comandante gli risuonò negli auricolari del casco.
«Ci ritiriamo anche noi, signor Dort. C’è la remota possibilità che abbiano caricato in quella scialuppa qualche tipo di esplosivo atomico che non potevano usare in prossimità della loro nave, ma che potrebbe essere distruttivo per noi anche da così lontano. Noi arretriamo. Lei tenga sempre il suo videotrasmettitore puntato sull’oggetto».
Il ragionamento era fondato, anche se sconfortante. Un esplosivo in grado di distruggere ogni cosa nel raggio di venti miglia era possibile in teoria, ma gli umani non l’avevano ancora. Era senz’altro più sicuro per la Llanvabon farsi indietro.
Ma Tommy Dort si sentì molto solo. Saettava attraverso il vuoto verso il minuscolo punto nero sospeso in quell’incredibile splendore. La Llanvabon svanì. Già a una distanza relativamente breve il suo scafo lucido si confuse con quella nebbia luminosa. Neppure la nave aliena era visibile a occhio nudo. Tommy nuotava nel niente, a quattromila anni-luce da casa, diretto al punto nero, l’unico oggetto distinguibile in tutto lo spazio.
Quando vi fu vicino, l’oggetto gli apparve come una sfera lievemente schiacciata, con un diametro di poco inferiore ai due metri. Quando Tommy vi atterrò sopra coi piedi, rimbalzò via. Dalla superficie della sfera sporgevano in tutte le direzioni piccole protuberanze simili a corna o viticci. L’aspetto non differiva molto da una mina subacquea innescata, ma c’era il baglione d’un cristallo su ogni punta.
«Sono arrivato», annunciò Tommy nel microfono del casco.
Afferrò uno di quei corni e si tirò verso l’oggetto. Era tutto di metallo nero opaco. Attraverso lo spessore dei guanti non poteva avvertire, ovviamente, se la superficie fosse liscia o granulosa, ma continuò a farvi scorrere sopra la mano cercando di scoprire lo scopo del manufatto.
«Punto morto, signore», disse poco dopo: «Niente da riferire che il videotrasmettitore non abbia già mostrato».
Fu a questo punto che cominciò a percepire le vibrazioni attraverso la tuta, che si fecero sempre più forti. Una sezione della sfera metallica si aprì, scivolando di lato. Tommy si sporse a guardar dentro, aspettandosi di vederne uscire i primi alieni civilizzati incontrati dall’uomo.
Ma ciò che vide fu soltanto una piastra piatta sulla quale un bagliore rosso cupo strisciava qua e là apparentemente senza uno scopo. Dagli auricolari del casco uscì un’esclamazione di sorpresa. La voce del comandante.
«Molto bene, signor Dort. Piazzi il suo videotrasmettitore davanti a quella piastra. Hanno sganciato lì fuori un congegno automatico con una visipiastra all’infrarosso, per comunicare con noi senza rischiare nessuno dei loro. Qualunque reazione violenta da parte nostra danneggerebbe soltanto una macchina. Forse si aspettano che lo portiamo a bordo… e potrebbe anche essere una bomba da far esplodere nel preciso momento in cui s’inizierà il loro viaggio di ritorno a casa. Bene, manderò anch’io una visipiastra da piazzare davanti alla loro. Lei torni a bordo».
«Sissignore», rispose Tommy. «Ma da che parte sta la Llanvabon, signore?»
Non c’erano costellazioni: la nebulosa le oscurava tutte con la sua luminosità diffusa. L’unica cosa visibile oltre al robot sferico era la stella doppia al centro della nube. Tommy non riusciva più a orientarsi. Ma gli restava ancora quel punto di riferimento.
«Si allontani in direzione opposta a quella della stella doppia», gli giunse l’ordine attraverso gli auricolari del casco. «Ci penseremo noi a raccoglierla».
Poco dopo gli passò accanto un solitario oggetto opaco, diretto verso la sfera aliena, anch’esso con una videopiastra da mettere in posizione. Le due navi spaziali, ognuna ben conscia di non poter rischiare la propria razza per una sia pur minima mancanza di precauzioni, avrebbero comunicato l’una con l’altra grazie a quei piccoli robot. I rispettivi sistemi visivi avrebbero consentito di scambiare tutte le informazioni che si sarebbe osato fornire, mentre da ambedue le parti si sarebbe continuato a scervellarsi sul miglior modo di garantirsi che la propria civiltà non sarebbe stata messa in pericolo da quel primo contatto con l’altra. Certo, il modo più sicuro e pratico sarebbe stato quello di distruggere l’altra nave con un attacco fulmineo e micidiale… per autodifesa, s’intende.
Da quel momento la Llanvabon fu una nave che si trovò ad affrontare due distinte imprese nello stesso tempo. La nave era giunta dalla Terra per compiere osservazioni a distanza ravvicinata sul membro più piccolo della stella doppia che si trovava al centro della nebulosa. La nebulosa stessa era il risultato della più titanica esplosione della quale l’uomo avesse conoscenza. L’esplosione aveva avuto luogo in un certo periodo dell’anno 2946 a.C, prima che la più antica delle sette successive città di Troia, da tempo scomparse, fosse anche soltanto immaginata. La luce di quella esplosione aveva raggiunto la Terra nell’anno 1054 d.C, ed era stata doverosamente registrata negli annali ecclesiastici, e in un modo un po’ più attendibile dagli astronomi cinesi di corte. Divenne eccezionalmente luminosa, al punto da esser visibile alla luce del giorno per ventitré giorni di seguito. La sua luce… distava quattromila anni-luce… aveva superato, in luminosità apparente, quella di Venere.
Da tutto ciò, novecento anni più tardi gli astronomi erano stati in grado di calcolare la violenza dell’esplosione. La materia sparata via dal centro dell’esplosione aveva viaggiato verso l’esterno a una velocità di due milioni e trecento miglia all’ora, più di trentottomila miglia al minuto, qualcosa di più di seicentotrentotto miglia al secondo. Quando i telescopi del ventesimo secolo erano stati puntati sulla scena di quest’immensa esplosione, rimanevano soltanto una stella doppia… e la nebulosa. La stella più luminosa del sistema doppio aveva caratteristiche quasi uniche, poiché aveva una temperatura superficiale così alta da non mostrare alcuna riga di assorbimento nello spettro. Aveva uno spettro continuo. La temperatura alla superficie del Sole è all’incirca di 7000 gradi assoluti. Quella della caldissima stella bianca era di 500.000 gradi. Questa stella aveva all’incirca la massa del Sole, ma soltanto un quinto del suo diametro, cosicché la sua densità era centosettantatré volte quella dell’acqua, sedici volte quella del piombo e otto volte quella dell’iridio, la sostanza più densa conosciuta sulla Terra. Ma questa densità, pur eccezionale, non raggiungeva quella di una nana bianca come la compagna di Sirio. La stella bianca nella Nebulosa del Granchio era una nana incompleta; una stella ancora nell’atto di collassare. L’esame ravvicinato di questa stella — unito alla lunga successione di fotografie prese all’interno del fascio luminoso da essa irradiato per quattromila anni di tempo e lungo una distanza di quattromila anni-luce attraverso lo spazio in direzione della Terra — avrebbe fornito informazioni d’inestimabile valore. La Llanvabon era giunta fin lì per compiere questo esame. Ma la scoperta d’una nave aliena intenta a un’analoga missione aveva implicazioni che relegavano in secondo piano lo scopo originario della missione.