Il minuscolo robot bulboso lasciato dagli alieni galleggiava nel tenue gas nebulare. Il personale operativo della Llanvabon era ai propri posti in attenta vigilanza, in preda a un crescente nervosismo. Il personale di osservazione si divise in due gruppi. Uno andò, a malincuore, a compiere le osservazioni per le quali la Llanvabon era venuta fin lì. L’altro gruppo si dedicò al problema rappresentato dalla nave aliena.
La presenza di questa nave implicava una cultura che aveva conseguito il volo interstellare. L’esplosione di cinquemila anni prima doveva aver spazzato via ogni traccia di vita in tutta la porzione di spazio cosmico riempita adesso dalla nebulosa. Per cui, gli alieni della nave nera dovevano provenire da un altro sistema solare esterno alla nebulosa stessa. Il loro viaggio doveva essere stato simile a quello della nave terrestre… per puri scopi scientifici. Non c’era nient’altro che si potesse ricavare dalla nebulosa.
Quindi, quegli alieni dovevano trovarsi per lo meno al livello della civiltà umana, il che significava che potevano disporre di capacità, conoscenze e merci di cui poter far commercio con gli uomini, in amicizia. Ma, fatalmente, anch’essi si sarebbero resi conto che l’esistenza dell’umanità, e il livello di civiltà da questa raggiunto rappresentavano una potenziale minaccia per la loro razza. Umani e alieni… le due razze avrebbero potuto essere amiche, ma altresì nemiche mortali. Ognuna, seppur involontariamente, rappresentava una mostruosa minaccia per l’altra. E l’unica cosa da farsi con una simile minaccia era distruggerla.
Lì, nella Nebulosa del Granchio, il problema era acuto e immediato. Quel che sarebbe stato, in futuro, il rapporto tra le due razze, sarebbe stato sistemato qui e adesso. Se fosse stato possibile stabilire relazioni di amicizia, una razza, altrimenti condannata, sarebbe sopravvissuta, ed entrambe ne avrebbero beneficiato immensamente. Ma ci si doveva, prima di tutto, conoscere, e instaurare una reciproca fiducia, senza che vi fosse il più piccolo rischio di tradimento. Nessuna delle due parti osava arrischiarsi a fare una sola delle cose indispensabili ad arrivare alla fiducia. L’unica cosa certa, per entrambe le parti, era distruggere l’altra o esser distrutta.
Ma anche per iniziare una guerra di distruzione totale, bisognava saperne assai di più sull’avversario. Vista la capacità di quegli alieni di attuare viaggi interstellari, essi dovevano disporre dell’energia atomica e di qualche forma d’iperpropulsione per viaggiare più veloci della luce. E insieme ai localizzatori, alle visipiastre, e alla telecomunicazione a onde corte, dovevano per necessità disporre di moltissimi altri congegni. Che armi avevano? Fino a che punto era estesa la loro cultura? Quali erano le loro risorse? Era possibile uno sviluppo di rapporti amichevoli, di commerci, oppure le due razze erano tanto dissimili che fra esse poteva esistere soltanto la guerra? E se la pace era possibile, come si poteva cominciare?
Agli uomini della Llanvabon occorrevano fatti… e occorrevano fatti anche all’equipaggio dell’altra nave. Ognuna delle due parti doveva portare indietro con sé ogni possibile frammento d’informazione. L’informazione più importante di tutte sarebbe stata l’esatta ubicazione dell’altra civiltà, nel caso in cui vi fosse stata guerra. Ma anche altre notizie sarebbero state ugualmente preziose.
Il fatto più tragico era però che non poteva esserci nessuna possibile informazione in grado di condurre alla pace. Nessuna delle due navi era pronta a rischiare la sopravvivenza della propria razza basandosi su una dichiarazione di buona volontà o sulla parola d’onore dell’altra.
Così, era una ben strana tregua quella in atto fra le due navi. Sia quella aliena che la Llanvabon continuarono la loro attività di osservazione. Il piccolo robot sferico galleggiava nel vuoto luminoso. Una telecamera della Llanvabon era messa a fuoco su una visipiastra aliena, e viceversa. Le comunicazioni ebbero inizio.
E progredirono in fretta. Tommy Dort fu tra quelli che fecero il primo rapporto sui progressi in corso. Il suo compito specifico in quella spedizione era terminato; adesso gli era stato affidato il compito di lavorare al problema della comunicazione con le entità aliene. Si recò insieme all’unico psicologo della nave fino alla cabina del capitano, per comunicargli la notizia del primo successo conseguito. La cabina del capitano era come sempre un luogo di silenzio e le luci rosso-cupo degli indicatori occhieggiavano tra le grandi visipiastre disposte sulle pareti e sul soffitto.
«Abbiamo stabilito un contatto abbastanza soddisfacente, signore», riferì lo psicologo. Aveva un aspetto stanco; il suo lavoro, durante tutto il viaggio, avrebbe dovuto consistere nel valutare i fattori individuali di errore nel personale di osservazione, portando l’attendibilità di tutti i dati ottenuti sempre più in là, un decimale dopo l’altro, verso l’esattezza assoluta. Quel nuovo incarico, al quale non era adatto, gli era stato imposto quasi a forza, e cominciava a risentirne gli effetti deleteri. «In altre parole, siamo in grado di dir loro quasi tutto ciò che vogliamo, facendoci capire, ed essere ugualmente in grado di capire ciò che ci dicono in risposta. Ma, com’è ovvio, non sappiamo quanto ci sia di vero in quello che ci dicono».
Gli occhi del comandante si appuntarono su Tommy Dort.
«Abbiamo collegato alcune apparecchiature», riferì Tommy, «forrealizzando un traduttore automatico. Disponiamo di visipiastre, naturalmente, e altresì di fasci direzionali di onde corte. Essi usano la modulazione di frequenza, più una variazione del profilo d’onda che, probabilmente, equivale alla successione dei suoni delle vocali e delle consonanti nel discorso. È qualcosa di nuovo, per noi, perciò non disponiamo di circuiti in grado di registrarlo; abbiamo comunque elaborato una specie di codice, che non è la lingua di nessuno di noi. Loro trasmettono su onde corte in modulazione di frequenza, e noi lo registriamo come suono. Quando noi trasmettiamo suoni, vengono convertiti in modulazione di frequenza».
Il comandante disse, corrugando la fronte:
«Come avete fatto ad accorgervi della variazione del profilo delle onde corte, se non possiamo registrarla?»
«Gli abbiamo mostrato il nostro registratore nelle visipiastre, e gli alieni ci hanno fatto vedere il loro. Registrano direttamente la modulazione di frequenza. Credo», aggiunse Tommy, soppesando le parole, «che non usino affatto i suoni, neppure per parlare tra loro. Hanno montato una vera e propria cabina di comunicazione, e noi li abbiamo osservati mentre comunicavano con noi. Non c’è stato nessun movimento percettibile di qualcosa che assomigliasse a un organo vocale. Invece che a un microfono, essi si tengono vicini a qualcosa che dovrebbe funzionare come un’antenna. La mia ipotesi, signore, è che usino microonde per quella che si potrebbe definire una comunicazione tra individuo e individuo. Credo che producano pacchetti di onde corte allo stesso modo in cui noi produciamo suoni».