Tommy Dort era amareggiato nei confronti del proprio cervello che si mostrava incapace di trovare una risposta in grado di funzionare. Ma doveva esserci una risposta! La posta in gioco era troppo grossa! Era troppo assurdo che due navi spaziali dovessero combattere — e nessuna delle due era stata concepita per farlo — cosicché il sopravvissuto riportasse indietro la notizia che avrebbe indotto la sua razza a compiere frenetici preparativi contro l’altra che non era stata in nessun modo avvertita.
Tuttavia, se entrambe le razze fossero state avvertite, e ciascuna delle due avesse saputo che l’altra non voleva combattere, e se avessero potuto comunicare l’una con l’altra ma non localizzarsi a vicenda finché non fosse stato trovato un terreno per la reciproca fiducia…
Era impossibile. Era una chimera. Era un sogno a occhi aperti. Era una sciocchezza. Ma era una sciocchezza tanto attraente che Tommy Dort, con una punta d’amaro, la trasferì nella codificatrice per comunicarla al suo amico Daino che respirava con le branchie e in quel momento si trovava a qualche centinaio di migliaia di miglia di distanza, in mezzo alla nebbiosa luminosità della nube.
«Certo», rispose Daino, nelle schede-parole che guizzarono al loro posto nel riquadro del decodificatore. «È un bel sogno. Ma anche se mi sei simpatico non posso ancora crederti. Se l’avessi detto io per primo, mi troveresti simpatico ma neppure tu mi crederesti. Io ti dico la verità più di quanto tu creda, e forse tu mi dici la verità più di quanto io ti creda. Ma non c’è nessun modo di esserne certi. Mi spiace».
Tommy Dort fissò con tristezza il messaggio. Avvertiva uno sgradevolissimo, orribile senso di responsabilità. Tutti l’avvertivano sulla Llanvabon. Se avessero fallito in quell’incontro, la razza umana avrebbe avuto un’ottima probabilità d’essere sterminata in un prossimo futuro. Se invece avessero avuto successo, sarebbe stata con ogni probabilità la razza degli alieni che si sarebbe trovata ad affrontare la distruzione. Milioni e milioni di vite dipendevano dalle azioni di pochi uomini.
Fu allora che Tommy Dort vide la risposta.
Sarebbe stato incredibilmente semplice, se avesse funzionato. Nel peggiore dei casi avrebbe dato una vittoria parziale all’umanità e alla Llanvabon. Tommy restò seduto, immobile, non osando compiere il minimo movimento per timore che ciò potesse spezzare la catena di pensieri che era seguita a quella prima, tenue idea. La rimuginò tra sé più volte, in preda a una crescente eccitazione, trovando qua delle obiezioni e risolvendole, e là delle impossibilità, e superandole. Era la risposta! Ne era più che convinto.
Quando imboccò il corridoio che conduceva alla cabina del comandante e chiese il permesso di parlare, si sentì quasi stordito dal sollievo.
Una delle funzioni del comandante, fra le molte, è quella di cercare le cose di cui preoccuparsi. Ma il comandante della Llanvabon non aveva certo bisogno di andarsele a cercare, le sue preoccupazioni. Durante le tre settimane e quattro giorni da quando c’era stato il primo contatto con la nave nera aliena, il volto del comandante era invecchiato e si era coperto di rughe. Non doveva preoccuparsi per la sola Llanvabon, ma per tutta l’umanità.
«Signore», disse Tommy Dort, la gola secca a causa della schiacciante importanza di ciò che stava per riferire. «Posso proporle un modo per impadronirsi della nave nera? L’intraprenderò io stesso, signore, e se non dovesse funzionare, la nostra nave non ne uscirà indebolita».
Il comandante lo fissò senza vederlo.
«Ogni tattica possibile è già stata elaborata, signor Dort», replicò, in tono grave. «Ora vengono tutte perforate su nastro, perché la nave possa usufruirne. È un terribile rischio, ma bisogna correrlo».
«Credo», insisté Tommy, calcando le parole, «di aver escogitato un modo per eliminare il rischio. Supponga, signore, che inviamo un messaggio all’altra nave, offrendo…»
La sua voce continuò, nel silenzio totale della cabina del comandante, con le visipiastre che mostravano soltanto una vasta nebulosità all’esterno e le due stelle che ardevano feroci nel cuore della nube.
Il comandante in persona passò attraverso la camera di equilibrio insieme a Tommy. Per un motivo, l’azione suggerita da Tommy richiedeva l’appoggio della sua autorità. Per un altro, il comandante si era preoccupato con più intensità di chiunque altro, là sulla Llanvabon, e la cosa l’aveva stancato. Se fosse andato con Tommy, lui stesso si sarebbe preso il carico e la responsabilità dell’atto; se avesse fallito, sarebbe stato il primo a restare ucciso, ma il nastro con tutte le manovre in dettaglio della nave terrestre era già stato dato in pasto al sincronizzatore principale. Se. Tommy e il comandante fossero rimasti uccisi, sarebbe bastato schiacciare un solo pulsante per scagliare la Llanvabon nel più furioso di tutti gli attacchi totali, destinato a concludersi con la completa distruzione della nave terrestre o di quella aliena… o di entrambe. Così, il comandante non aveva disertato il suo posto.
Il portello esterno della camera di equilibrio si spalancò, aprendosi su quel vuoto splendente che era la nebulosa. A venti miglia di distanza il piccolo robot nero era sospeso nello spazio, alla deriva in un’incredibile orbita intorno ai soli gemelli centrali, e galleggiando sempre più vicino ad essi. Naturalmente, non avrebbe mai raggiunto nessuno dei due. La stella bianca da sola era talmente più calda del Sole della Terra che la sua vampa termica avrebbe riscaldato un oggetto alla stessa temperatura di quella media dell’atmosfera terrestre perfino a una distanza quintupla di quella di Nettuno dal Sole. Anche trovandosi a una distanza pari a quella di Plutone dal Sole il piccolo robot sarebbe diventato rosso come una ciliegia per il calore irradiato dall’avvampante nana bianca. E non poteva certo avvicinarsi a soli centocinquanta milioni di chilometri, che sono all’incirca la distanza della Terra dal Sole: così vicino, il suo metallo si sarebbe fuso, ribollendo sempre più e fuggendo via sotto forma di vapore. Ma, a mezzo anno-luce di distanza dalla stella doppia, il bulboso oggetto nero ondeggiava tranquillo nel vuoto.
Le due figure in tuta spaziale si librarono allontanandosi sulla Llanvabon. I piccoli propulsori atomici che facevano di esse delle piccole astronavi autonome avevano subìto delle modifiche accortamente studiate e inappariscenti all’esterno, ma che non interferivano col loro funzionamento. Puntarono verso il robot comunicatore. Il comandante, una volta là fuori, nello spazio, disse burbero: «Signor Dort, durante tutta la mia vita ho bramato l’avventura. Questa è la prima volta che ne vivo una autentica».
La sua voce giunse a Tommy attraverso gli auricolari spaziofonici. A sua volta, Tommy s’inumidì le labbra e rispose: «A me non sembra una avventura, signore. Io voglio fortissimamente che il piano vada in porto. Credo che si possa parlare di avventura quando del suo esito non ci importa poi tanto».
«Oh, no», ribatté il comandante. «C’è avventura quando si butta la propria vita sulla bilancia della fortuna e si guarda dove l’ago si arresta».
Raggiunsero il robot sferico. Si aggrapparono alle sue corte corna sormontate dai sensori.