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Nella cavità aperta del torace c'era ogni sorta di tessuto connettivo bianco-blu, e in alcuni punti si vedeva anche la colonna vertebrale.

L'ultima cosa che il Sergente Elliot esaminò fu il volto ormai privo di mascella e completamente bianco fino al labbro superiore che sembrava di cera. Elliot era soltanto al suo secondo turno con l'entourage dei Tosok; ancora non conosceva molti degli umani, ma questo gli era abbastanza familiare.

Era il tizio della televisione.

Cletus Calhoun.

Frank Nobilio stava facendo di nuovo quel sogno. Era all'università, negli anni Sessanta, con i pantaloni a zampa d'elefante e una camicia a fiori. Mentre camminava lungo un corridoio un altro studente, passando, gli augurava buona fortuna.

«Per cosa?» chiedeva Frank.

«Per l'esame, naturalmente» diceva lo studente.

«Esame?»

«Biochimica.»

Biochimica. Oh Cristo. Frank ricordava di essersi iscritto al corso all'inizio dell'anno accademico, ma chissà perché aveva dimenticato di andare alle lezioni. E quel giorno c'era l'esame finale — un esame per cui non aveva affatto studiato. Come diavolo pensavano che sarebbe…?

Frank stava riprendendo coscienza. Aveva finito l'università da decenni, ma faceva sempre quel dannato sogno. I dettagli cambiavano, a volte aveva dimenticato di frequentare Storia americana, a volte Statistica — ma la situazione continuava a ripetersi e…

Bussavano con insistenza alla porta. Un colpo precedente doveva averlo svegliato.

«Cosa c'è?» gridò Frank. La voce era roca; aveva dormito con la bocca aperta.

«Dottor Nobilio? È la polizia.»

Frank si districò dalle lenzuola, si alzò traballando in piedi e raggiunse la porta. La aprì e strizzò gli occhi per la luce nel corridoio. «Sì?»

Nel corridoio c'erano due uomini. Uno era il sergente Ellis, Elliot, o qualcosa del genere, in uniforme. L'altro non lo conosceva: un uomo compatto con la carnagione olivastra, forse sui quarantacinque. Aveva i capelli neri e mossi, gli occhi marroni e dei baffi ordinati. L'uomo mostrò il suo tesserino. «Dottor Nobilio, sono un detective, il tenente Jesus Perez, della polizia di Los Angeles. Mi spiace disturbarla, signore, ma c'è stato un omicidio.»

Frank sentì la sua mascella abbassarsi. «Quale?»

«Prego, signore?»

«Quale Tosok è stato ucciso?»

Perez scosse la testa. «Non è un Tosok, signore. È un umano.»

Frank fece uno sguardo sollevato. Perez lo guardò scioccato. «Scusate» disse Frank. «Mi… mi dispiace. È solo che, Cristo, non so che succederebbe se uno dei Tosok venisse ucciso.»

«Vorremmo che lei identificasse il corpo, signore.»

Il cuore di Frank ebbe un sussulto. Si stava ancora svegliando. «Volete dire che è qualcuno che conosco?»

«Probabilmente, signore.»

«Chi?»

«Pensiamo che si tratti di Cletus Calhoun, signore.» Frank si sentì come se gli avessero dato un pugno nello stomaco.

La commozione generale aveva svegliato anche altri umani. Quando Perez arrivò con Frank nella stanza di Clete, Packwood Smathers e Tamara Slynova erano già lì, sulla soglia, oltre la pozza di sangue. I capelli bianchi di Smathers erano scompigliati, e Frank non aveva mai visto Slynova struccata. Frank era in pigiama; Smathers aveva un accappatoio sul pigiama, e Slynova sembrava indossare soltanto un accappatoio.

Frank si avvicinò alla porta e guardò dentro. Due uomini della scientifica di L.A. erano già al lavoro. Il corpo di Clete era stato coperto con un lenzuolo, ormai macchiato di sangue, e rialzato nel punto in cui le costole spuntavano dal tronco. Frank guardò il viso del suo amico, senza la parte inferiore e bianco come il marmo. Si trattenne a mala pena dal vomitare.

«Allora?» disse Perez.

«È lui.»

Perez annuì. «Era quello che pensavamo. Gli abbiamo trovato addosso il portafogli. Lei sa chi è il parente più vicino?»

«Non è sposato. Ma ha una sorella — Daisy, credo — nel Tennessee.»

«Ha idea di chi potesse volerlo morto?»

Frank guardò Packwood Smathers, poi di nuovo il corpo. «No.»

Si recò al secondo, al quarto e al sesto piano — quelli abitati dai Tosok — accompagnato da uno scienziato tedesco, Kohl. Andarono per i corridoi fermandosi a ogni stanza occupata e chiedendo al Tosok che era dentro di seguirli. Gli alieni uscirono e si diressero tutti verso il salone che era al centro del sesto piano. Erano le 4:30 del mattino.

I Tosok aspettarono pazientemente. Frank fece un rapido conteggio — ce ne erano solo sei. Dunque: il capitano Kelkad, e poi Rendo, Torbat e…

«Scusate se vi ho fatto aspettare» disse una voce. «Che succede?»

Si voltò ed ebbe un shock quasi paragonabile a quando aveva visto il corpo scempiato di Clete. Dal corridoio stava arrivando, con passi di due metri, un Tosok che non aveva mai visto prima, con la pelle argentata.»

«Chi… chi sei?» disse Frank.

«Hask.»

«Ma… ma Hask ha la pelle bluastra.»

«Aveva» disse il Tosok. «Oggi ho fatto la muta.»

Frank lo guardò. In effetti aveva l'occhio frontale sinistro arancione e il destro verde. «Oh,» disse Frank «perdonami.»

Hask si andò a sedere. Frank guardò i sette alieni. Avevano visto molto della Terra. Anche se era stato fatto uno sforzo per mostrare loro il lato migliore dell'umanità, di sicuro avevano avuto modo di osservare anche i lati peggiori. I Tosok avevano conosciuto la povertà e l'inquinamento, e sapevano che la sicurezza era lì per proteggerli nel caso che un essere umano volesse far loro del male.

Però fino ad allora la violenza di cui l'umanità era capace era rimasta un concetto astratto. Ma adesso dovevano sapere.

«Amici miei,» disse Frank a quel mare di occhi rotondi «ho delle tristi notizie.» Fece una pausa. Dannazione, avrebbe voluto che i Tosok facessero delle espressioni; non era ancora bravo a decifrare il movimento dei loro ciuffi. «Clete è morto.»

Ci fu un lungo silenzio.

«Gli umani muoiono senza preavviso?» chiese Kelkad. «Sembrava in buona salute.»

«Non è morto per cause naturali» disse Frank. «È stato assassinato.»

Sette computer tascabili suonarono, leggermente fuori sincronia.

«Assassinato» ripeté Frank. «Significa ucciso da un altro essere umano.»

Kelkad emise un piccolo suono. Il suo computer lo tradusse come «Oh».

7

«Signore,» disse il tenente Perez entrando nel lussuoso ufficio del diciottesimo piano del Tribunale Criminale della Contea di Los Angeles, «abbiamo proprio una bella situazione qui.»

Il procuratore distrettuale Montgomery Ajax alzò lo sguardo dalla sua immacolata scrivania col piano di vetro. «Di che si tratta?»

«Vorrei rivedere con lei il rapporto della scientifica sul caso Calhoun.»

Ajax aveva i capelli grigi e gli occhi azzurro pallido. Il viso era allungato e con una abbronzatura profonda — un'abbronzatura da Bahamas, non da California. «Qualcosa di insolito?»

«Può ben dirlo, signore.» Piazzò una fotografia sul tavolo. Mostrava un segno insanguinato a forma di U su un tappeto grigio.»

«Cos'è? Un ferro di cavallo?»

«Non ne avevamo idea, signore. Io pensavo potesse essere l'impronta di un tacco, ma la scientifica dice di no. Ma dia un'occhiata a questo.» Mise un ritaglio di giornale vicino alla fotografia. C'era un'immagine in bianco e nero di Kelkad che imprimeva la sua impronta al Mann Chinese Theatre. La forma era quasi identica a quella insanguinata della traccia.

«Cristo santo» disse Ajax.

«È esattamente quello che ho pensato io, signore.»

«C'è modo di sapere a quale dei Tosok appartiene l'impronta?»

«Forse, anche se non abbiamo il dettaglio.»