«Peter Lime?» Era una bella voce di donna, chiara e giovanile, priva di accento.
«Chi parla?» domandai.
«Clara Hoffmann, dei servizi segreti danesi» rispose.
«È uno scherzo?» domandai. Continuai a strisciare finché fui certo di potermi alzare senza essere visto dalla spiaggia, quindi mi avviai alla macchina a passo sostenuto.
«Ha un minuto?»
«No. Non ce l’ho.»
«È una cosa importante.»
«Non ne dubito, ma adesso non posso parlare.»
«Vorrei incontrarla.»
«Non sono a Madrid.»
Avevo parcheggiato nel punto in cui la piccola strada sterrata terminava bruscamente chiusa da due grossi massi. Il pastore che avevo visto al mio arrivo era fermo nello stesso punto, circondato dalle sue pecore e appoggiato a un bastone. Nonostante il cappello a falde larghe che gli nascondeva gran parte del volto, notai che teneva fra le labbra un mozzicone di sigaretta rollata a mano. Accovacciato ai suoi piedi c’era un grosso cane dal pelo folto e arruffato, mentre un altro pattugliava i margini del gregge.
«Dove si trova?» chiese la donna.
«Non vedo come la cosa la riguardi.»
«Si tratta di una faccenda delicata, vorrei incontrarla al più presto» ripeté.
«Mi richiami tra un paio d’ore» proposi.
«Devo vederla di persona. Le telefonerò una volta arrivata a Madrid.»
«Come le ho detto non sono a Madrid…» Esitai qualche secondo e poi aggiunsi: «Anche se rientrerò nelle prossime ore».
«Molto bene. Sono sicura che quando saprà di cosa si tratta deciderà di aiutarci» proclamò.
«L’avverto, non sento alcun debito di gratitudine nei confronti del mio paese d’origine» ribattei.
Rise. La sua risata era melodiosa quanto la sua voce.
«Sarò all’Hotel Victoria».
«A presto.» Chiusi la comunicazione. Quasi correndo proseguii verso l’auto. Era una jeep nuova fiammante, che avevo noleggiato una settimana prima. Buttai la borsa sul sedile posteriore e avviai il motore. Le pecore alzarono la testa belando quando, partendo, sollevai una nuvola di polvere probabilmente visibile dalla spiaggia. Il pastore girò lentamente la testa seguendomi con lo sguardo mentre mi allontanavo dalla costa sulla strada tutta buche, tra scossoni e sobbalzi.
Avevo stabilito il mio quartier generale nella cittadina balneare di Llanca, cinquanta chilometri più a sud. Al termine del tratto di sterrata accelerai ben oltre il limite di velocità. Il caldo faceva fumare l’asfalto. Eravamo solo agli inizi di giugno, ma la temperatura faceva presagire un’estate particolarmente torrida e secca. I primi villeggianti stavano già arrivando, e lente automobili con pesanti roulotte al traino punteggiavano le strade tortuose della costa. Guidavo come uno spagnolo. Prendevo velocità lungo le discese e frenavo bruscamente prima di un tornante, lasciando che la jeep mordesse la curva. Alla mia sinistra il mare si stendeva azzurro come il cielo, e in basso appariva di quando in quando lo scorcio di un villaggio di basse costruzioni bianche. Mi sentivo bene con il vento tra i capelli e il frutto della mia spedizione nella borsa sul sedile posteriore. Non vedevo l’ora di tornare a casa da Amelia e Maria Luisa, nella città che sentivo mia. Era in momenti come quello che mi rendevo conto di quanto la mia professione fosse importante per me. Guadagnavo più che bene, inutile negarlo, ma la verità era che senza il lavoro non avrei saputo come riempire le mie giornate.
Nonostante il mio stile di guida, impiegai un’ora e mezzo per fare cinquanta chilometri. Il traffico si intensificò man mano che mi avvicinai alla meta e due volte incappai in una coda per lavori in corso. Arrivai a Llanca che erano ormai quasi le tre del pomeriggio. Ero sudato, assetato e affamato. Le strade della città erano sprofondate nell’atmosfera sospesa e afosa della siesta. I turisti erano per lo più al mare, qualcuno fuori a passeggio, ma i residenti erano tutti a casa a pranzare o a guardare la televisione. Il mio albergo, affacciato sul lungomare, era vicino al porto e a una grande spiaggia affollata di famiglie che prendevano il sole sulla sabbia dorata o facevano il bagno. Le voci risuonavano attutite, come filtrate da morbida bambagia.
Ricordavo il tempo non troppo lontano in cui la vista di una famiglia riunita e serena mi irritava, suscitandomi una fitta d’invidia subito repressa. Ma adesso ero pronto a bearmi di quello spettacolo. Avevo anch’io una famiglia. Erano trascorsi i giorni in cui ripetevo che i lupi vivevano e cacciavano meglio in autonomia; che c’era differenza tra l’essere soli e l’essere solitari, rivendicando convinto la mia appartenenza alla seconda categoria di persone.
Parcheggiai la jeep in una stradina laterale. Prima di ritirare la chiave della stanza alla reception, passai al bar accanto all’albergo per un succo d’arancia e un’ottima tortilla di patate e cipolle che consumai in piedi al bancone. Mentre mi accendevo una sigaretta e ordinavo un caffè doppio, il barista mi rivolse un commento sulla recente sconfitta del Barcellona. Il club occupava il terzo posto nella classifica, un vero dramma per ogni catalano che si rispetti. Confessai di tifare Real Madrid, e la conversazione proseguì per qualche minuto. Intanto mi sforzavo di ritrovare la calma. Un appostamento andato a buon fine mi faceva lo stesso effetto di due ore passate alla scuola di karate di Calle Echégaray. Ero al contempo rinvigorito, su di giri ed esausto.
Una volta in camera feci una doccia e preparai i bagagli prima di telefonare a Oscar in agenzia. Le pellicole erano al sicuro nella borsa con il lucchetto, i miei vestiti in una piccola valigia che mi avrebbe consentito di evitare il check in. Ero abituato a viaggiare leggero, a fare affidamento sulle lavanderie dell’albergo.
Di solito Oscar si ripresentava al lavoro dopo la pausa pranzo alle quattro del pomeriggio e non alle cinque, come fino a qualche anno prima accadeva in gran parte degli uffici della città. Ma anche adesso che molti madrileni avevano deciso di adeguarsi a ritmi più “europei”, le prime ore del pomeriggio erano dedicate alle colazioni di lavoro, ai pranzi in famiglia o agli incontri amorosi clandestini. Per precauzione avevo in tasca il numero di telefono dell’attuale amante di Oscar, ma lo avrei usato solo in caso di necessità. A casa di Gloria, la moglie, lo si poteva trovare solo la domenica. Gloria era alta, ben fatta e ancora attraente. Gestiva un fiorente studio legale e si procacciava amanti più giovani che le confermassero la sua appetibilità. Né Gloria né Oscar si sarebbero mai sognati di divorziare. Si rispettavano e godevano della reciproca compagnia. Le loro vite private e professionali erano da troppo tempo legate a doppio filo: un eventuale divorzio avrebbe portato solo grane.
Erano entrambi miei amici e soci d’affari, e ci conoscevamo più o meno da vent’anni. Ci eravamo incontrati negli anni caotici e pieni di speranza successivi alla morte di Franco. Oscar era un giornalista tedesco che collaborava con una serie di piccole testate di sinistra. Gloria una studentessa di giurisprudenza che custodiva la tessera dell’allora illegale partito comunista come fosse uno dei gioielli scomparsi della corona dello Zar. Avevo avuto una breve relazione con lei, ma tutti sembravano andare a letto con tutte a quell’epoca, e la storia era finita rapidamente e senza rancori. L’incontro di Oscar con Gloria, invece, era stato folgorante per entrambi. Avevano perso la testa e, contro ogni previsione, non si erano più separati, scegliendo di non dare importanza alla fedeltà reciproca, almeno negli ultimi anni. Insieme eravamo stati giovani, poveri e rivoluzionari, e insieme eravamo diventati ricchi. Oscar e Gloria erano la mia seconda famiglia. Non avevano voluto figli e quando Gloria aveva scoperto di desiderarne uno, era ormai troppo tardi. Non era più riuscita a rimanere incinta, ma se la cosa rappresentò una delusione, fu abile a nasconderla. Oscar non sembrava dare gran peso alla faccenda. Se Gloria voleva un bambino, lui era più che disposto a collaborare. Dopo un paio d’anni di tentativi falliti avevano smesso di parlare dell’argomento, apparentemente a loro agio nella vita di sempre.