Alzai lo sguardo sul volto di Clara Hoffmann.
«È una bella foto» dissi.
La girò. Il copyright era della Polfoto. In basso qualcuno aveva scritto Foto di Lime? in una grafia inclinata. Clara continuava a fissarmi.
«Precisamente» disse. «Foto di Lime? Punto di domanda.»
Controllai se ci fosse una didascalia, ma tutto ciò che trovai fu l’indicazione Presumibilmente scattata in Danimarca, 15 giugno 1970.
«Ho fatto migliaia di foto in vita mia» dissi. Ero sempre più sicuro di avere già visto la ragazza. «È lei?»
«Laila Petrova. Da giovane» confermò Clara.
«Non si chiamava Laila…» dissi sforzandomi di ricordare. «Si chiamava Lola. Lola Nielsen. O Jensen. O Petersen. Un cognome molto comune.»
«Allora la foto è tua.»
«Può anche darsi. Non ne sono sicuro.»
Finii di bere la mia acqua tonica.
«Se la donna è una truffatrice, cosa c’entrano i servizi segreti?»
«E l’uomo chi è?» chiese Clara Hoffmann ignorando la mia domanda. Lo osservai con più attenzione. Anche lui era giovane, sulla ventina. Portava i capelli piuttosto lunghi. I denti risaltavano bianchi e regolari in contrasto con il nero della barba. Indossava una giacca a vento scura, forse blu.
«Non lo so» risposi. «È lui che i servizi segreti stanno cercando?»
«Diciamo che ci interessa, e perciò ci interessa anche la foto di Lime.»
Le restituii la foto.
«Non posso aiutarvi.»
«Mi chiedevo se avessi ancora il negativo. E magari altre foto scattate nella stessa occasione.»
«Se la foto è mia può darsi che abbia il negativo. E se ho il negativo, può darsi che riesca a trovarlo. E se riesco a trovarlo, può darsi che ci siano anche altre foto. Chi è il barbuto?»
«È ricercato in tutto il mondo da oltre vent’anni. È tedesco. Uno dei suoi tanti nomi è Wolfgang. Ha fatto parte della Rote Armee Fraktion. Omicidio, incendio doloso, rapina e sequestro di persona. I servizi segreti tedeschi credevano di averlo stanato alla caduta del Muro di Berlino, ma all’ultimo momento riuscì a dileguarsi. Era rimasto nascosto in Germania dell’Est per quindici anni, lavorando come meccanico. Uno dei miei colleghi tedeschi ha visto la tua foto su “Bild Am Sonntag” e ha riconosciuto il nostro Wolfgang. Poi si è messo in contatto con noi. Non avevamo la più pallida idea del fatto che Wolfgang avesse conoscenze in Danimarca. Dove è stata scattata la foto?»
La conversazione informale di poco prima si era definitivamente trasformata in un interrogatorio.
«Non lo so. Non sono nemmeno sicuro che quella foto sia mia. Sono passati quasi trent’anni.»
Lei me la porse.
«Tienila. Io ho diverse copie. Pensaci. Fai uno sforzo di memoria, fruga nel tuo archivio, Lime. Aiutaci.»
«Okay. Vedrò quel che posso fare.»
A un mio cenno Felipe corse al tavolo, pagai il conto non senza lasciargli la consueta, generosa mancia. Mi alzai.
«Ti telefono» dissi. «Fra un paio di giorni. Intanto goditi Madrid.»
«A spese dei contribuenti» rise.
«Non è affar mio. Non pago le tasse al governo danese» dissi, prendendo la tracolla con le macchine che avevo appoggiato sulla sedia accanto.
Mi allontanai con l’animo stranamente pesante, pieno di un’inquietudine che non riuscivo a spiegarmi. Vecchi ricordi riaffioravano alla memoria, confusi e apparentemente insignificanti. Me li scrollai di dosso mentre rientravo a casa. Abitavo di fronte alla Cervecería, all’ultimo piano, in un appartamento che avevo acquistato diversi anni prima, e poi ampliato a più riprese incorporando gli appartamenti attigui. Disponevamo di oltre trecento metri quadri, incluso il mio studio e un terrazzo. Ricevevamo continue offerte d’acquisto. E siccome era un appartamento fantastico proprio nel cuore della città, invariabilmente rispondevamo «no grazie». Entrai in casa, accolto come sempre dal sorriso di una Jacqueline Kennedy quasi interamente svestita, la cui foto a figura intera decorava la parete alle spalle della porta.
«Sono io» gridai in direzione della cucina dove, data l’ora, sicuramente si trovavano Amelia e Maria Luisa. Misi i rullini da sviluppare al sicuro nella cassaforte dello studio e gettai la foto di Clara Hoffmann sulla mia scrivania. Poi mi lavai le mani e andai a sedermi a tavola, di fronte alle mie due ragazze preferite. Maria Luisa parlò ininterrottamente per tutta la durata della cena. Mentre ascoltavo incantato le sue storie, leggevo la mia stessa gioia negli occhi di Amelia.
Dopo mangiato portai a letto la piccola. Quando si fu addormentata mi feci una doccia rapida e poi corsi a infilarmi a letto dove Amelia mi aspettava nuda sotto il lenzuolo. Ritrovare il suo corpo fu bellissimo. I rumori della città entravano dalla finestra aperta confondendosi ai nostri gemiti.
Ero troppo sveglio per sperare di riuscire a prendere sonno e quando il respiro di Amelia si fece regolare mi alzai. Andai a sedermi sul terrazzo con una Coca, una sigaretta e la fotografia vecchia di trent’anni. Circondato da gerani, rose, eucalipti, aranci e limoni, sentivo le pulsazioni della città salire fino a me dalla piazza sottostante. E ricordavo.
La foto che aveva portato Clara Hoffmann fino a Madrid era stata scattata a Bogense durante una sagra paesana e pubblicata su un giornale locale che l’aveva acquistata insieme ad altre della stessa serie. Lo stesso giornale doveva poi averla venduta all’agenzia Polfoto. Lola allora aveva vent’anni e abitava nella stessa comune in cui vivevo io. Voleva fare la cantante folk, sognava una carriera da Bob Dylan al femminile. Avevamo fatto sesso qualche volta. In un contesto in cui tutti, donne e uomini, si sforzavano di superare la gelosia in quanto sentimento meschino e tipicamente borghese, la bella Lola era una dei pochissimi ad essere riuscita nell’intento: passava da un letto all’altro con assoluta disinvoltura, seminando tensione fra i suoi partner e spezzando più di un cuore. L’uomo della foto non si chiamava Wolfgang. Il suo nome era Ernst. Era un ragazzo di appena diciott’anni e veniva da Amburgo. Come tutti si sentiva un artista, voleva scrivere romanzi. Era politicamente impegnato, naturalmente a sinistra, ma a quel che ricordavo non aveva simpatia per le bombe. Si era innamorato perdutamente di Lola, e lei aveva giocato con il suo amore, seducendolo e poi abbandonando il suo letto per il mio, oppure per quello di un altro. Ernst aveva continuato a guardarla con occhi infelici e a seguirla come un cagnolino segue il padrone.
Era tutto quanto riuscissi a rammentare. Non avevo più ripensato a Lola nel corso di quei quasi trent’anni. Ma a un tratto, sul terrazzo immerso nell’aria tiepida della notte, mi tornò in mente un episodio: l’ultima volta in cui eravamo stati insieme aveva pianto. Io la trovavo attraente e sexy, ma non ero innamorato di lei. Non avevo intenzione di fermarmi a lungo alla comune, volevo viaggiare. Quando le dissi che stavo per partire, fu come se le avessi tolto una parte del suo potere.
Mi risuonò nella mente la sua esile voce.