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Park attraversò lentamente il locale, senza distogliere lo sguardo dalla figura che riposava nella luce dorata del tramonto. La faccia aveva una somiglianza razziale con le Famiglie Qeng Ho, ma non era quella che Park ricordava. Poco importava. L’uomo poteva essersi cambiato la faccia molto tempo prima. Comunque Park aveva un analizzatore di DNA in tasca nella giacca, e una copia del vero DNA dell’uomo.

Era avvolto in una coperta gialla e aveva un berretto di lana. Non si muoveva, ma sembrava che guardasse qualcosa, forse soltanto il tramonto. È lui. La convinzione emergeva senza un motivo razionale, come un’onda empatica che lo investisse. Forse incompleto, ma questo è lui.

Park prese una sedia libera e sedette di fronte alla figura, sotto la luce. Trascorsero cento secondi. Duecento. Gli ultimi raggi del sole stavano svanendo. L’uomo aveva lo sguardo vuoto, ma reagì alla diminuzione di temperatura sulla sua faccia. Mosse il capo, cercando vagamente qualcosa, e parve notare il visitatore. Park avvicinò la sedia per farsi vedere meglio. Negli occhi dell’altro apparve uno sguardo più vivo, stupore, ricordi che risalivano dai più profondi abissi della memoria. Le sue mani uscirono da sotto la coperta e sfiorarono il volto di Park come artigli.

— Lei!

— Sì, signore, io. — La lunga ricerca era finita.

L’uomo si agitò a disagio sulla sedia a rotelle, sistemando meglio la coperta. Per qualche secondo tacque, e quando parlò la sua voce era rauca. — Lo sapevo che la sua… gente non avrebbe mai smesso di cercarmi. Ho finanziato questo dannato culto di Xupere, ma ho sempre saputo… che non sarebbe bastato. — Si mosse ancora. Nei suoi occhi c’era una luce che Park non aveva mai visto ai vecchi tempi. — Non me lo dica. Ogni Famiglia ha partecipato un poco. Forse su ogni nave Qeng Ho c’era un membro dell’equipaggio che aveva il compito di cercarmi.

Non immaginava neppure la vastità della ricerca che finalmente li aveva condotti a lui. — Noi non vogliamo farle del male, signore.

L’uomo ebbe una risata aspra, incredula. — È una vera sfortuna che sia lei l’agente che loro hanno assegnato a Triland. Lei era il più abile di tutti. Ma avrebbero dovuto impiegarla meglio, Park. Lei dovrebbe ormai essere un comandante di flotta, a dir poco, invece di un sicario itinerante. — Si agitò ancora, come per grattarsi le natiche. Cos’aveva? Emorroidi? Un cancro? Signore Iddio, scommetto che è seduto su una pistola. Ha aspettato di essere rintracciato per tutti questi anni, e ora è impastoiato nella coperta.

Park si piegò in avanti, teso. L’uomo si aspettava di dover uccidere o essere ucciso. Bene. Poteva essere l’unico stato d’animo in cui avrebbe parlato. — E cosi alla fine la fortuna ci ha arriso, signore. Ha arriso a me. Suppongo che lei sia qui a causa della stella OnOff.

La mano che frugava sotto la coperta si fermò un momento. L’uomo sbuffò, sprezzante. — Dista solo cinquanta anni-luce, Park. L’enigma astrofisico più vicino allo Spazio Umano. E voi, potenti Qeng Ho senza palle, non l’avete mai visitata. Il profitto è l’unica cosa che importa alla vostra gente. — Con la mano destra accennò che questo era scusabile, mentre con la sinistra continuava a tastarsi il sedere. — Ma del resto l’intera razza umana è fatta così. Ottocento anni di osservazioni col telescopio e due sonde automatiche inviate nella zona, questo è tutto ciò che la cosa merita… Io pensavo che forse qui, cosi vicino, avrei potuto organizzare una spedizione con equipaggio umano. E forse avrei trovato qualcosa, là. Poi, quando fossi tornato indietro… — Di nuovo quella strana luce negli occhi. Aveva sognato quel sogno impossibile tanto a lungo che esso l’aveva consumato. E Park capì che l’uomo non era un frammento di se stesso. Era semplicemente impazzito.

Ma i debiti con un pazzo erano pur sempre debiti.

Park si avvicinò un po’ di più. — Lei avrebbe potuto farcela. So che una nave interstellare passò di qui quando “Bidwel Ducanh” era all’apice della sua carriera.

Quella era Qeng Ho. Che si fottano, i Qeng Ho! Io me ne sono lavato le mani, di voi. — Il suo braccio non si agitava più. Evidentemente aveva trovato la pistola.

Park appoggiò una mano sul braccio dell’uomo, attraverso la coperta. Non era tanto un gesto fatto per bloccarlo, quanto la richiesta che non avesse fretta di agire. — Pham. Ora c’è un motivo per andare alla stella OnOff. Anche dal punto di vista Qeng Ho.

— Uh? — Park non sapeva se fosse stato il suo tocco, le sue parole, o quel nome che non veniva pronunciato da tanto tempo, ma qualcosa trattenne il vecchio e lo indusse ad ascoltare ancora.

— Tre anni fa, mentre già facevamo rotta verso l’interno dello Spazio Umano, i Trilandesi captarono una trasmissione da un punto assai vicino alla stella OnOff. Era uno spruzzo di onde radio, come quelle che una civiltà decaduta potrebbe reinventare dopo aver perso tutta la sua tecnologia. Noi facemmo le nostre triangolazioni e le nostre analisi. Le emissioni ricordano un codice Morse manuale, con la differenza che la mano e i riflessi umani non potrebbero mai avere questo ritmo.

La bocca del vecchio si aprì e si richiuse, ma non ne uscì alcun suono. — Impossibile — disse infine, molto debolmente.

Park si accorse di sorridere. — È strano sentire questa parola da lei, signore.

Un’altra pausa di silenzio. L’uomo chinò la testa. Poi: — Il colpo grosso. L’ho mancato di sessant’anni. E voi, che mi avete dato la caccia fin qui… ora voi avrete tutto. — Il suo braccio era ancora nascosto, ma si accasciò sulla sedia, sconfitto dalla visione della sua sconfitta.

— Signore, alcuni di noi… più che alcuni, hanno avuto l’incarico di cercarla. Lei ci ha reso assai difficile questa ricerca, e ci sono ancora tutte le vecchie ragioni per mantenerla segreta. Ma non abbiamo mai pensato di farle del male. Volevamo trovarla per… — Fare ammenda? Essere perdonati? Park non poté dire quelle parole, e non erano completamente vere. Dopotutto l’uomo s’era sbagliato. Così parlò al presente: — Saremmo onorati se lei venisse con noi. Alla stella OnOff.

— Mai. Io non sono Qeng Ho.

Park si teneva sempre aggiornato sullo stato e sulla posizione delle sue navi. E proprio in quel momento… be’, forse valeva la pena di fare un tentativo. — Io non sono venuto su Triland solo soletto, signore. Ho una flotta.

L’altro alzò il mento di una frazione di millimetro. — Una flotta? — L’interesse era un vecchio riflesso non ancora morto.

Le navi sono in orbita, e fra pochi momenti saranno visibili anche da questa latitudine. Le piacerebbe vederle?

Il vecchio scrollò le spalle, ma ora entrambe le sue mani erano scoperte, appoggiate in grembo.

Mi permetta di mostrargliele. — C’era una porta nella parete di plastica stinta, a qualche metro da lì. Park si alzò e spinse la sedia a rotelle da quella parte. Il vecchio non fece obiezioni.

All’esterno era freddo, probabilmente sotto il punto di congelamento dell’acqua. I colori del tramonto indugiavano ancora sopra i tetti davanti a loro, ma l’unico ricordo del calore diurno era il fango non ancora congelato sotto le scarpe. Lui spinse la sedia verso un angolo del parcheggio da cui si poteva vedere una porzione maggiore del cielo orientale. Mi chiedo quanto è passato dall’ultima volta che lo hanno portato fuori.

— Non ha mai pensato. Park, che potrebbe esserci altra gente interessata ad aggregarsi alla comitiva?

— Altra gente?

— Ci sono mondi colonizzati umani più vicini di questo alla stella OnOff.

Quella comitiva. — Sì, signore. Stiamo perfezionando i nostri metodi di aggiornamento su di loro. — Tre bei pianeti nel sistema di una stella tripla, usciti dalla barbarie negli ultimi secoli. — Si fanno chiamare “gli Emergenti” ora. Noi non abbiamo ancora visitato i loro mondi. A quanto ne sappiamo si tratta di una specie di tirannia, altamente tecnologica ma molto isolazionista, molto xenofoba.