Benissimo. Donald Mortensen esisteva. Non aveva, e non avrebbe, usato uno pseudonimo al suo arrivo a Boston il giorno di Natale di quattrocento anni addietro. Se mai fosse arrivato. Quellen tornò a esaminare l’elenco dei saltati, e seppe che Mortensen aveva trovato lavoro come tecnico in una fabbrica di automobili (che lavoro preistorico!, pensò) e aveva sposato una certa Donna Brewer nel 2091, divenendo poi padre di cinque figli (ancora più preistorico!). Era poi vissuto fino al 2149, e non era indicata la malattia che l’aveva portato alla morte.
Quei cinque figli dovevano avere avuto centinaia e centinaia di discendenti. Quellen pensava che migliaia degli attuali esseri umani dovevano essere pronipoti di quel Mortensen. Tra gli altri poteva esserci anche lui, o qualche membro dell’Alto Governo. Ora, se i tirapiedi di Quellen l’avessero acciuffato prima di quel fatale 4 maggio, impedendogli di arrivare nell’anno 2088…
Quellen esitava. La ferma determinazione di prima lo stava rapidamente abbandonando, mentre considerava le conseguenze del suo intervento sul destino già segnato di Donald Mortensen.
Sarà forse meglio che prima ne parli a Koll e a Spanner, concluse tra sé.
4
La macchina del lavoro, il cui nome ufficiale era Registro Centrale di Collocamento, era installata nell’atrio enorme di una cupola geodesica che aveva il diametro di duecento metri. La superficie della cupola era stata rivestita di platino per uno spessore di tre molecole. All’interno, lungo i muri, erano sistemati solo i terminali esterni dei banchi del calcolatore, in realtà situato altrove. Una mente inanimata lavorava instancabilmente a individuare le possibilità di impiego, accordandole con le capacità degli aspiranti.
Norman Pomrath prese un taxiespresso per andare alla cupola. Avrebbe potuto benissimo arrivarci a piedi, risparmiando l’equivalente in denaro di un’ora del suo tempo, ma preferì non farlo. Il suo era uno sperpero voluto. Disponeva di tutto il tempo possibile, mentre le disponibilità di denaro erano molto limitate, malgrado la generosità dell’Alto Governo. L’assegno del sussidio settimanale che gli veniva dato grazie alla bontà di Danton e Kloofman e degli altri membri del governo, era sufficiente a coprire le spese necessarie dei quattro membri della famiglia Pomrath, ma rimaneva ben poco per le spese superflue. Di solito, Pomrath, stava attento a non spendere. Gli seccava vivere del sussidio, ma poiché era molto difficile trovare un lavoro regolare, finiva con l’accettare, come tutti, quel segno impersonale di benevolenza. Nessuno, a meno che lo volesse, moriva di fame e, anche volendolo, non era facile riuscirci.
Pomrath avrebbe potuto benissimo evitare di andare alla macchina. Le linee telefoniche collegavano ogni appartamento con tutti i calcolatori al servizio del pubblico. Sarebbe bastato telefonare per chiedere informazioni e, del resto, se ci fosse stata una possibilità di lavoro, la macchina lo avrebbe avvertito. Ma lui aveva voglia di uscire di casa, anche se conosceva già in anticipo quale sarebbe stata la risposta della macchina. La sua visita non era altro che un semplice rito, uno dei tanti rituali inutili che pure lo aiutavano a sopportare l’avvilente sensazione di essere un uomo finito.
Quando mise piede nell’edificio, i ricognitori sotterranei ronzarono. Era stato controllato, registrato e identificato… Se il suo nome avesse fatto parte dell’elenco degli anarchici conosciuti, non gli avrebbero permesso di varcare la soglia. Dal pavimento sarebbero uscite delle pinze di metallo che, senza fargli male, gli avrebbero immobilizzato braccia e gambe finché fossero venuti gli incaricati a disarmarlo e a portarlo via. Ma Pomrath non aveva alcuna intenzione di danneggiare la macchina. L’ostilità che covava nell’animo era diretta contro l’universo in generale. Era troppo intelligente per sprecare il suo rancore contro i calcolatori.
Le facce benevole di Benjamin Danton e Peter Kloofman gli sorridevano dalla volta della cupola geodesica. Erano due giganteschi ritratti tridimensionali che pendevano dalle lucide travature dell’enorme edificio. Danton riusciva a sembrare severo anche quando sorrideva; Kloofman, che aveva la fama di possedere una grande carica di calore umano, era più simpatico. Pomrath ricordava che, una ventina di anni prima, i pubblici rappresentanti dell’Alto Governo avevano costituito un triumvirato, di cui facevano parte Kloofman e altri due di cui non ricordava più il nome. Poi, improvvisamente, era comparso Danton e i ritratti degli altri due erano stati tolti. Senza dubbio, un bel giorno sarebbero scomparsi anche Danton e Kloofman, e sugli edifici ci sarebbero stati i ritratti di due, o tre, o quattro facce nuove. I cambiamenti che avvenivano nelle alte sfere interessavano ben poco Pomrath. Come molti, dubitava che Danton e Kloofman esistessero davvero. C’erano ottimi motivi per credere che i calcolatori dirigessero tutto lo spettacolo, da un secolo almeno. Tuttavia Pomrath non mancò di chinare rispettosamente la testa davanti ai ritratti tridimensionali, mentre entrava nel palazzo della macchina del lavoro. Per quello che ne sapeva, Danton poteva anche starlo a osservare attraverso i gelidi occhi di quell’enorme ritratto.
Il locale era affollatissimo. Pomrath si diresse verso la parte centrale, e si soffermò un momento ad ascoltare il ronzio della macchina. Alla sua sinistra c’era il Banco Rosso, per i trasferimenti di lavoro. Non faceva al suo caso, perché, per chiedere di cambiare lavoro, bisognava averne già uno. Davanti a lui c’era il Banco Verde, per i disoccupati cronici come lui. Alla destra, il Banco Azzurro, che forniva tutte le informazioni necessarie sui nuovi lavori appena assegnati. C’erano lunghissime file davanti a ciascuno dei tre banchi. I ragazzi a destra, a sinistra un gruppo di benestanti della Decima Classe in attesa di una sistemazione migliore e, dritto davanti a lui, la legione dimessa dei prolets. Pomrath si accodò alla fila davanti al Banco Verde.
La fila procedeva in fretta. Nessuno gli rivolse la parola. Solo con se stesso, Pomrath si chiese, come ormai succedeva sempre più spesso, in quale momento si fosse arenata la sua vita. Sapeva di possedere un alto quoziente d’intelligenza, ottimi riflessi, decisione, ambizione e spirito di adattamento. Se tutto fosse andato liscio, a quest’ora avrebbe fatto parte dell’Ottava Classe.
E invece qualcosa non aveva funzionato a dovere. E non c’era più speranza che la situazione cambiasse. Aveva studiato da tecnico medico, pensando che anche nel migliore dei mondi sarebbero sempre esistite le malattie e chi dovesse curarle. Disgraziatamente, moltissimi altri giovani della sua generazione erano arrivati alla stessa conclusione. Come nelle corse degli artropodi, Pomrath pensava che era necessario scegliere con cura il granchio favorito, giudicandone l’abilità e lo spirito aggressivo con molto acume. Si valutavano tutti i pro e i contro, ma il guaio era che c’erano altri giocatori astuti: se uno riusciva a individuare un corridore fuoriclasse, ci riuscivano anche gli altri, e le poste erano di 11 a 10, o peggio. Quindi, anche vincendo, al più si rientrava nelle spese. Il segreto era di trovare un fuoriclasse dato 50 a 1. Ma se era così bravo, non avrebbe avuto una valutazione simile. L’universo non è ingiusto, pensava Pomrath ma solo indifferente.
Aveva voluto puntare sul sicuro, ma il risultato non era stato che una miseria: qualche settimana di lavoro, molti mesi di disoccupazione. Pomrath era un ottimo tecnico. La sua. abilità poteva essere considerata pari a quella di un buon medico di qualche secolo prima: i veri dottori, che erano rari, appartenevano alla Terza Classe, immediatamente al di sotto dello scalino più basso dei funzionari dell’Alto Governo. Pomrath, poi, malgrado le sue qualità, era relegato nella Quattordicesima Classe di cui condivideva tutti i disagi, e l’unica speranza di poter essere promosso stava nell’accumulare esperienza per poter diventare più abile. Ma non c’era lavoro, o almeno troppo poco.