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— È morto — disse con tristezza la Warren. — Ha respirato la polvere, anzi, c’è annegato dentro. Ansava, cercando di tirare su aria, e i suoi polmoni si sono riempiti di polvere, come se fosse acqua! Non c’è stato niente da fare… niente!

— Si vede che era destino — commentò Burke, più filosoficamente. — Quelli sono arrivati trascinando la polvere. Avrebbero soffocato qualunque fuoco, con quella, meno la benzina accesa! Per questo hanno portato tutta quella polvere… Qualcuno deve già avere usato il fuoco contro di loro, e così hanno escogitato il sistema per difendersi.

— Ma abbiamo vinto noi — disse Lane. Poi si rivolse alla Warren. — I Gizmo non sono un prodotto locale, sono sparsi per tutto il paese. Ci sono stati dei morti dappertutto, la scorsa notte, a centinaia, e quel che è accaduto qui è avvenuto altrove, con qualche variante. Tutti pensano che si tratti di una nuova malattia diffusasi tra gli animali, e che adesso minacci gli uomini. Un’epidemia, che finora non ha fatto ancora la sua comparsa in città. La gente è avvertita di star lontana dagli animali, domestici o no, di aspettare che gli scienziati scoprano il germe e trovino il vaccino…

— Idioti! — scattò la Warren. — Pazzi! Bisogna avvertirli che…

— No — interruppe Lane. — Avevate ragione voi: c’è un solo sistema per convincerli. Mostreremo loro i Gizmo.

Burke gli passò accanto, con il suo triste fardello. Lo depose all’interno della stazione, poi si avvicinò alla macchina esaminandola attentamente. Spazzò via dal cofano uno strato di polvere di una quindicina di centimetri. Ripulì bene il radiatore, poi salì e accese il motore, ascoltandone il battito con orecchio critico. Con un cenno di soddisfazione, mise in moto, e la macchina partì, adagio nella polvere.

Lo scappamento lasciava un solco dietro di sé e le ruote sollevavano enormi baffi impalpabili.

Poi, lo spesso strato depositatosi sul tetto della macchina volò via.

Liberatosi finalmente dall’incrostazione di polvere, Burke fermò la macchina, saltò giù, ritornò alla stazione e si munì di spazzola e stracci per pulire l’auto e ridare trasparenza ai vetri. Una volta finito, si dedicò agli abiti, e alla fine fu di nuovo presentabile.

— Gli sportivi — stava dicendo Lane — mi conoscono come un passabile giornalista di argomenti di caccia, ma non è detto che per questo accettino tutte le notizie che do. E d’altra parte la situazione è troppo seria per perdere tempo in opere di persuasione. Voi avete una via più sicura?

La Warren si torse le mani: — Se si sono fatti l’idea che si tratta di un’epidemia, sarà dieci volte più difficile farli ricredere! Non c’è niente di più limitato dei cervelli dei ricercatori: parlano sempre di lavoro di gruppo, ma soltanto perché nessuno osa pensare qualcosa che gli altri potrebbero non accettare! Io, per giunta, mi sono fatta la fama di possedere una fantasia sbrigliata, qualità che sgomenta ogni mente cosiddetta scientifica. Crederebbero a chiunque, meno che a me… intendiamoci, a chiunque fosse fornito di laurea!

Burke si avvicinò, sempre spazzolandosi gli abiti, con una strana aria, tra il preoccupato e il soddisfatto.

— Io parto — annunciò. — Voi mi avete salvato da una fine come quella del povero Sam… e avete dimostrato di sapervela cavare benissimo. Ora, siccome incontrerò ancora quelle “cose”, vorrei saperne di più. Venite con me?

— Non staremo qui di sicuro — rispose Lane, e si volse di nuovo verso la Warren: — La cosa migliore è che voi torniate all’Università con i dati che possedete — disse.

— Dati? E credete che servano? Neanche a mostrare i Gizmo, vivi, morti, pronti per l’esame istologico, l’opinione scientifica accetterà l’esistenza di una cosa viva; che non è di carne e ossa! Ma quelli hanno cercato di soffocarmi: sono pericolosi!

— Ecco — disse Lane — io ho diversi amici. Qualcuno mi crederà di sicuro, ma poi nessuno ascolterà loro, come non ascolterebbero me: sono soltanto uomini d’affari che vanno a caccia e a pesca. Però ce n’è uno a capo di un laboratorio farmaceutico nel New Jersey. Fabbrica antibiotici e cose simili. Siamo andati a caccia e a pesca insieme. Forse non accetterà proprio tutto senza prove, ma almeno lascerà che gli mostri una prova, se riesco a portargliela.

La Warren si strinse nelle spalle.

— Una telefonata e partiamo — disse Lane, poi volgendosi a Burke, aggiunse: — Verremo con voi e vi diremo tutto quel che sappiamo. Quando vorrete separarvi da noi ci lascerete alla stazione ferroviaria più vicina. Va bene così?

— Affare fatto — approvò Burke. — Faccio il pieno, poi partiamo.

Lane tornò alla stazione, e sentì subito uno strano rumore: allarmato, corse a vedere. Veniva da sotto un bidone di benzina vuoto e capovolto. Lo alzò e ne vide balzare fuori Mostro, che latrava, guaiva, tremava. Il cane s’era cacciato nell’angolo più remoto suggeritogli dall’istinto, e se l’era cavata. I Gizmo questa volta avevano concentrato l’attacco sugli uomini.

Lane aveva bisogno di gettoni per il telefono e li prese tranquillamente dalla cassa. “Fra poco i diritti di proprietà sembreranno ridicoli” pensò.

E infilò un gettone nell’apparecchio.

Fuori, Burke riempiva il serbatoio. Nel magazzino aveva scovato una mezza dozzina di latte da cinque litri, per i casi d’emergenza. Le aveva riempite tutte e si era portato via anche qualche lattina d’olio.

— Mi preparo a riceverli! — disse.

Passarono venti minuti, prima che Lane riagganciasse. Quando usci di cabina era teso e con gli occhi spiritati. Burke, al volante della macchina, gli disse, deciso: — Temevo che quelli tornassero con qualche altra diavoleria. Se fossero tornati sarei partito, lasciandovi a terra. E non ditemi che sono un vigliacco!

Lane non rispose. La Warren era già in macchina. Il giornalista salì, spingendo Mostro: dovette prenderlo in braccio. Burke mise in moto e la macchina partì.

— “Quelli” credono che torni indietro a cercare una strada col fondo buono, ma si sbagliano. Sono furbi quei maledetti — aggiunse. — Scommetto che sono Marziani, sbarcati già da un bel pezzo. Ci hanno studiato, hanno schierato le truppe, e adesso sono pronti per attaccarci. Ma non sanno chi siamo!

La Warren domandò angosciata: — Dick, avete saputo qualcosa al telefono?

Lane strinse i denti. Gli avevano parlato di un’epidemia scoppiata improvvisamente, e che prima colpiva soltanto gli animali e adesso anche gli uomini. Erano morti tutti a Serenity, nel Colorado. Lane conosceva bene quel paese.

Tre mesi prima era stato sulla Costa Occidentale, sempre alla ricerca della “cosa” che faceva strage della selvaggina. Una notte s’era fermato nel minuscolo paesetto di Serenity: nei pressi c’erano stati molti casi di morte. Il paese era annidato in una valle, circondato da monti altissimi, più alti delle più alte cime della Virginia, e tutt’attorno le vette erano incoronate di nevi perenni.

Lane se ne ricordava benissimo. A pochi chilometri dalle prime case aveva trovato un orso grigio e due orsacchiotti, morti tra erba calpestata e arbusti abbattuti. Lane s’era recato coscienziosamente sul campo della lotta, accompagnato da un guardacaccia del Colorado: una morte inspiegabile.

Più tardi i due avevano pranzato in paese, mangiando trote di montagna, ascoltando quel che diceva la gente del posto di quelle stragi. Erano ripartiti il mattino seguente senza aver la minima idea di che cosa potesse causare tante morti.

Ora, dopo la notizia, una quantità di particolari gli si affollarono in mente. Ricordava il paesetto: un centinaio di case e tre negozi.

Lo vedeva benissimo: annidato tra le montagne, con le luci nelle case, come doveva essere la notte prima, con in alto le stelle e una falce di luna.

Quasi tutti i lumi dovevano essere già spenti, quando ci furono i primi sintomi della strage.