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Alle undici si sentì improvvisamente un gran trambusto, fuori, all’aperto. I gatti lottavano, tra miagolii e soffi, i cani uggiolavano, ululavano e latravano in preda al terrore. Un gran frastuono insomma, che svegliò tutti gli abitanti del paese.

Si accesero le luci: la gente uscì con fanali e lumi per vedere che cosa stava succedendo. Ma intanto, man mano che gli uomini uscivano con le lanterne in mano, il frastuono diminuiva e quando tutto il paese fu sveglio regnava di nuovo il silenzio. Si sentivano soltanto le voci di quelli che chiamavano le bestie o si interrogavano a vicenda su cosa fosse capitato.

Poi qualcuno ritrovò il suo cane. Morto, senza ferite, ma con i denti scoperti e gli occhi vitrei sbarrati. Si ritrovarono a poco a poco gatti e cani esanimi. Tutte le povere bestie rimaste fuori casa erano morte, e non di morte naturale. A nessuno venne in mente l’orso ammazzato con i due piccoli pochi mesi prima.

A Serenity scoppiarono subito violente discussioni. Si parlò di veleno: i pochi che erano riusciti a identificare le loro bestie giunsero subito a quella conclusione. Gli abitanti del paese se la prendevano con il misterioso responsabile di quelle morti. Era quasi mezzanotte. La gente cominciò a imprecare con chi aveva lasciato in giro il veleno o, peggio ancora, lo aveva distribuito alle povere bestie. Poi pieni di rabbia tutti ritornarono a letto.

Questo si seppe perché il postino lasciò il paese a mezzanotte meno un quarto, addolorato e furente perché gli era morto un bel cane. S’incamminò su per la mulattiera di montagna, nel buio, verso il centro di distribuzione della posta, per il solito giro di metà settimana. Partendo così presto, poteva tornare verso l’alba e raggiungere due amici che andavano a pesca. Ma non poté farlo.

Lane immaginava quel che era capitato più tardi. Vedeva la scena come se fosse stato presente. A notte fonda, mentre tutto il paese era immerso nel sonno, si sentirono sibili attorno alle case di Serenity. Non c’erano luci, e così nessun lume ondeggiò quando le masse di gas gli passarono davanti. Le stelle invece tremolarono un po’ mentre le “cose” sibilanti si muovevano in mezzo alle case. Scesero dai camini, s’infilarono nelle finestre aperte, entrarono attraverso le persiane, come farebbe un anello di fumo, si librarono invisibili dentro alle case del paese. Poi tutto fu silenzio, come se “quelli” aspettassero il momento convenuto.

E il momento arrivò. Di colpo, dappertutto ci furono sibili, grida e rantoli, e i vetri qua e là andarono in pezzi, come se in una lotta disperata e cieca la gente cercasse l’aria, rompendo i vetri delle finestre. Il trambusto non fu grande come per le bestie, e non durò neppure tanto. In breve a Serenity regnò di nuovo un assoluto silenzio.

Ma poco dopo all’interno di una casa ci fu un bagliore. Si era rovesciato un vecchio lume a petrolio e ben presto si alzarono fiamme altissime, che toccarono il tetto e divamparono nel paese immerso nel silenzio.

Nessuno uscì fuori, nessuno chiamò aiuto. La casa bruciò fino alle fondamenta, senza che nessuno si muovesse tra le case silenziose.

Quando il postino ritornò poco dopo l’alba, scoprì quello che era accaduto.

E Dick Lane, mentre attraversava le montagne della Virginia occidentale, imprecava forte, pensando a quanto gli avevano appena detto al telefono. Era pieno di odio e di indignazione. Serenity era stata distrutta, e uomini, donne e ragazzi avevano nutrito i Gizmo in quel modo orribile.

A tremila chilometri dal paesino, Lane fremeva d’orrore e di disgusto.

La Warren lo osservava preoccupata. — Dick, c’è altro?

Lui scosse la testa, cercando di dominare il furore. Poco dopo la sentì che spiegava a Burke cosa avevano scoperto. Di tanto in tanto Burke interrompeva con domande intelligenti, sensate, che sorprendevano Lane. Burke era un tipo solido, con la faccia che sembrava di cuoio, e due incredibili occhi azzurri. Annuiva, mentre la Warren gli dava le spiegazioni richieste.

— Prima hanno cercato di uccidere il signor Lane — disse a un certo punto — e quando lui l’ha scampata grazie alle foglie secche, lo hanno seguito. Fino a quel momento nessuno si era salvato, e loro sapevano che lui sapeva. Capite dove voglio arrivare?

— No — rispose la Warren.

— Immaginiamo che siano dei Marziani — proseguì Burke, conquistato dalla propria teoria. — O addirittura che vengano da Orione, dal Cigno, o dal qualche altra costellazione, e che siano sbarcati in una foresta. Se sbarcassimo noi su un pianeta lontanissimo, e trovassimo una foresta con dentro degli animali cosa credete che faremmo?

— Inutile pensarci — disse la Warren. — Siamo già immersi abbastanza nell’assurdo!

Burke sogghignò. — Lasciatemi finire. Se noi sbarcassimo su un qualche pianeta, per prima cosa penseremmo a nasconderci. Non credo che ce ne andremmo in giro a dire: “Portateci dai vostri capi”. Dovremmo cercarci un nascondiglio e studiare la situazione; dovremmo provare le nostre armi sugli animali. Se scoprissimo che gli abitanti locali sono civilizzati, manderemmo a chiamare altri rinforzi, formeremmo un esercito, e, lontani come siamo da casa, faremmo fuori gli animali della foresta dove siamo sbarcati, per nutrirci e risparmiare le provviste a favore degli uomini. E quando fossimo abbastanza forti, costituiremmo degli avamposti per sorvegliare il nemico. Studieremmo un piano di guerra e ci terremmo nascosti finché non fossimo pronti ad attaccare. È o non è così?

— No — ribatté la Warren, indignata. — Se sbarcassimo su un altro pianeta, abitato da esseri civili, cercheremmo di fare amicizia!

— Sì? — disse Burke, con ironia. — È così che hanno fatto con gli Indiani, quattrocento anni fa? E in Africa, e in Australia? C’erano degli indigeni in quei paesi, e noi, popoli civili, abbiamo fatto amicizia?

— Non è la stessa cosa — tagliò corto la Warren.

— Però potrebbe essere come dico io, per le “cose” che voi chiamate Gizmo — riprese Burke. — Se arrivano da qualche altro mondo, sbarcando qui, devono aver organizzato le proprie forze e ucciso la selvaggina per evitare di trasportare i rifornimenti. Supponiamo che abbiano costituito delle basi avanzate nelle maggiori foreste, con avamposti e punti di osservazione nei boschi più vicini alle zone abitate. Se hanno già sbarcato un grosso esercito, devono mandare in giro delle pattuglie per provvedere ai rifornimenti. Ed ecco che qua e là, ci sono gruppetti di Gizmo a caccia di cibo con l’ordine di non toccare gli esseri umani ma di non lasciarsi sfuggire quelli che hanno scoperto la loro presenza.

— Insomma — interruppe la Warren con asprezza — secondo voi i Gizmo non sarebbero al livello degli animali inferiori; ma sono intelligenti come gli uomini, e in grado di ragionare?

— Esatto! Proprio così! — approvò Burke, poi continuò nel suo racconto. — Confrontate i fatti con la mia ipotesi. Il signor Lane è sfuggito a un attacco di una pattuglia grazie alle foglie secche. Si è allontanato e la pattuglia lo ha seguito. Ma qualcuno di loro ha chiesto ordini per sapere come comportarsi con un uomo che è riuscito a non finire soffocato premendosi sulla faccia delle foglie. Gli ordini sono di aspettare il momento opportuno e di ucciderlo a tradimento. Allora mettono una spia nella roulotte, ma voi la catturate e l’uccidete. Tentano di farvi fuori in ogni modo, e intanto chiedono rinforzi. Dopo un po’, attaccano di nuovo e vi prendono vivi, tutt’e due. Allora decidono di studiarvi, di scoprire se siete intelligenti e vi tengono in vita. E voi gliel’avete fatta, con il fuoco. — Ai suoi piedi, Mostro si mise a uggiolare. — Siete scappati — continuò Burke con una strana aria divertita — agitando le fiaccole contro le quali loro erano impotenti. In quel momento arrivo io. E cosa fanno i Gizmo? Informano il Comando che siete più abili di quanto credevano e che non hanno abbastanza forze per bloccarvi. Il signor Lane nella radura forse si è imbattuto in una squadra, e alla roulotte loro magari hanno mandato un battaglione, ma con la palla di polvere ci hanno mandato contro un’intera divisione per soffocare il fuoco e ucciderci tutti, perché ormai la sapevamo troppo lunga.