«Mi sono portato dietro il mio castello. Che ne dici di riposarci qualche giorno nei giardini, bevendo vino dolce e ammirando il panorama? Sarai mia gradita ospite, e parleremo oziosamente di argomenti del tutto futili».
«Non ci casco, Calanctus», brontolò lei.
«Un momento», intervenne Ildefonse. «Prima che ve ne andiate, dovete togliere l’esqualmazione a quell’accozzaglia di Streghe, e risparmiarne la fatica a noi».
«Bah, non ti costerà nessuno sforzo», disse Calanctus. «Evoca il Secondo Retromorfico, e fissa il risultato con un Talismano Xang. È questione di pochi minuti, per un Mago capace».
«Cosa vuoi insinuare?», Ildefonse si erse fieramente. «Ero perfettamente a conoscenza dell’incantesimo più adeguato».
Rhialto fece un cenno a Ladanque. «Porta fuori le signore, e scaricale sul prato».
Il ciambellano indicò il rottame del simulacro. «Questo oggetto sta bruciando l’erbaccia, padrone. Devo spegnerlo subito».
Seccato e stanco, Rhialto pronunciò uno dei più elementari incantesimi di dissoluzione. L’oggetto scomparve, lasciando una chiazza sul terreno.
Il sole era già alto. Llorio gettò un’occhiata al fiume, esitò, si volse a considerare la strada che conduceva fra le colline, poi cambiò idea e si avviò con aria pensosa lungo il declivio del prato. Calanctus la seguì. I due si fermarono una cinquantina di passi più avanti, guardandosi con espressioni diverse. Llorio disse qualcosa, Calanctus rispose agitando una mano con noncuranza, la ragazza gli sbatté un dito sul petto replicando in tono pungente, Calanctus rise e indicò verso est con aria invitante. Anche Llorio guardò da quella parte, sospirò e si strinse nelle spalle. Un attimo dopo i due erano scomparsi.
IL CRISTALLO DI PUNTA ECLISSE
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Durante le pigre ore del giorno, il sole spandeva sulle piane e sui colli i suoi esangui bagliori di rame. La notte ovunque era oscurità e silenzio, e poche stelle segnavano ancora il posto delle antiche costellazioni. Le stagioni scorrevano lente, senza urgenza e forse senza scopo, e la gente evitava di fare piani a lunga scadenza.
Già tre interminabili Eoni erano trascorsi dall’epoca del Grande Motholam, i più illustri praticanti della magia erano scomparsi, ciascuno soccombendo a una morte quando più e quando meno dignitosa: chi per il tradimento di un amico corrotto, chi per mano di un’amante infedele, chi ad opera di un segreto gruppo cabalistico, chi in un incidente, in un improvviso e orribile disastro o in un mortale duello di poteri.
In quel torpido XXI° Eone, i Maghi risiedevano per la più parte nelle quiete valli di Almeria e di Ascolais, sebbene alcuni solitari si fossero isolati nella nordica Terra di Cutz, o nella Terra delle Mura che crollano, o perfino nelle lontanissime Steppe di Shwang dell’estremo oriente.
Per ragioni complesse e difficili da indagare, in quei giorni i Maghi costituivano un insieme assai vario. Riuniti a colloquio, essi davano l’impressione di un’assemblea di uccelli esotici, dal disparato piumaggio, ciascuno diverso ed a suo modo singolare. Malgrado fosse assente fra loro l’atmosfera maestosa del Grande Motholam, essi non erano meno capricciosi ed egocentrici degli antichi predecessori, e soltanto dopo molti spiacevoli equivoci e controversie s’erano persuasi ad accettare un comune codice di condotta. Questo statuto, noto come “Le Decretazioni”, o più comunemente come “Il Codice Azzurro”, era inciso su un prisma di cristallo azzurro, tenuto nascosto in un luogo segreto. L’Associazione comprendeva i Maghi più illustri della regione, che avevano all’unanimità eletto Ildefonse come Maestro, conferendogli vasti poteri decisionali.
Ildefonse risiedeva a Palazzo Boumegarth, un vecchio ma dignitoso castello che sorgeva sulle rupi sovrastanti il fiume Scaum. Se era stato nominato Maestro lo doveva in parte al suo rispetto per il Codice Azzurro, in parte al suo carattere imperturbabile talora fin troppo pacato. La sua tolleranza era proverbiale: sapeva ridere delle inclinazioni lascive di Dulce-Lolo, e lo si vedeva perfino annuire pazientemente alle dissertazioni dell’ascetico Tchamast, che detestava con fanatica determinazione il sesso femminile.
Di solito Ildefonse si mostrava con l’aspetto fisico di un gioviale uomo di mezz’età, con occhi azzurri e arguti, un paio di baffetti biondi e talora una barba sottile. Ma la sua era una figura costruita per generare fiducia e confidenza, sovente per ricavarne qualche vantaggio personale, e applicare a Ildefonse la patente di “ingenuo” sarebbe stato probabilmente poco saggio.
Dopo la sua elezione, i Maghi iscritti all’Associazione erano ventidue. E malgrado i chiari vantaggi di una condotta regolamentata, alcuni spiriti irrequieti non potevano resistere al brivido dell’illecito, creando situazioni talora delicate talaltra pericolose. Le trasgressioni al Codice Azzurro non erano rare.
Uno di questi casi coinvolse anche Rhialto, da alcuni conosciuto come “Il Meraviglioso”. Egli abitava a Palazzo Falu, non distante dalle Acque Selvagge, in una zona di basse colline e umide foreste ai confini orientali di Ascolais.
I colleghi consideravano Rhialto un damerino, superbo e artificioso, il che non giovava certo alla sua popolarità. Alto e fiero d’aspetto, con un volto sobrio incorniciato da corti e curatissimi capelli neri, amava esibire modi studiatamente disinvolti. I peccati della vanità non gli erano certo sconosciuti, ma univa a ciò un tocco di altezzosa riservatezza che innervosiva ed esasperava gli altri Maghi. Quando appariva alle riunioni, non pochi si volgevano ostentatamente dall’altra parte, e a ciò Rhialto opponeva una sublime indifferenza. Salvo che non fosse irritato, perché allora rivolgeva al collega che lo ignorava il più elaborato e verboso dei saluti. La sua padronanza delle frivole formalità era famosa quanto la sua eleganza.
Hache-Moncour era invece uno di coloro che coltivavano la sua amicizia. Egli aveva scelto per sé le sembianze di un Semidio di Chtarion, dai bronzei riccioli che incorniciavano un volto classico, la cui bellezza era però incrinata (così lo criticavano alcuni) dalla bocca eccessivamente larga e dagli occhi troppo tondi e ingenui. La sua raffinatezza addirittura eccessiva era (sempre a detta dei critici) un’emulazione smaccata dei manierismi di Rhialto, che egli teneva d’occhio per copiare e poi esasperare le ultime novità della moda.
Anni addietro, Hache-Moncour era stato affetto da una quantità di vezzi e gesti inconsci poco eleganti, che aveva faticato molto per abbandonare. Ancora adesso, quando era assorbito da qualche pensiero, si frugava col mignolo in un’orecchia o distrattamente si dava delle vigorose grattate sotto un’ascella. Poche cose lo innervosivano come la possibilità che qualcuno lo osservasse in quei momenti, e s’impegnava al massimo per esibire in pubblico finezza e stile. Ma in lui lavorava come un tarlo il sospetto che Rhialto, segretamente, sorridesse dei suoi piccoli sbagli, e ciò affilava la lama della sua invidia. Fu proprio questo che diede origine a una faccenda spiacevole.
C’era stato un pranzo ufficiale nel salone di Mune il Mago, e gli intervenuti si stavano accomiatando. Uscirono nella sala adiacente e poi nell’andito dove ritirarono dal guardaroba i copricapi e i mantelli. Sempre puntiglioso nelle sue cortesie, Rhialto porse ad Hurtiancz dapprima la cappa, poi il copricapo. Hurtiancz, la cui testa massiccia poggiava direttamente sulle spalle squadrate, accolse quel servizio con un grugnito. Hache-Moncour, che stava dietro di loro, fu svelto a cogliere l’occasione e pronunciò un piccolo sortilegio il cui effetto fu di allargare di parecchie misure il cappello di Hurtiancz. Quando il corpulento e irascibile Mago se lo mise in testa, esso gli piombò mollemente fino al naso bulboso coprendogli del tutto gli occhi.