Per un motivo che Rhialto non si curava di esplorare, quel mattino il suo appetito era scarsissimo. Esaminò senza interesse l’insalata verde, scartò con una smorfia il vassoio dei salumi, mordicchiò appena il pane biscottato e infine bevve una tazza di the scuro e forte. Poi, sebbene avesse una dozzina di cosette in sospeso nella sua stanza da lavoro, s’appoggiò allo schienale della poltroncina e lasciò vagare lo sguardo oltre il prato, la dove s’infittiva il Bosco Mannaro.
In quella pigra e astratta contemplazione la sua mente rimase tuttavia acuta e percettiva. Un insetto scese sulla tremula foglia di un vicino pioppo nano: Rhialto prese nota con cura dell’angolo in cui piegava le zampe, e dei mille barbagli rossi nei suoi occhi sfaccettati. Interessante e significativo, rifletté.
Dopo aver speculato a fondo sulla natura e sul comportamento dell’insetto, Rhialto estese la sua attenzione al panorama. Osservò i pendii del prato che digradavano verso l’ansa del Ts, e la distribuzione delle erbe. Studiò alcuni tronchi spezzati al bordo della foresta, la luce solare che ora s’infiltrava rossastra nel fogliame, penetrò con gli occhi le ombre indaco e verde scuro. Ogni particolare si presentava alla sua esplorazione visiva con assoluta chiarezza. Il suo udito non era meno acuto e… D’un tratto si protese, inclinando il capo nel tentativo di sentire… Che cosa? Le note di una musica senza suono?
Niente di niente. Rhialto si rilassò, sorridendo delle sue strane fantasie, e si versò un’altra tazza di the amaro. Ma lo dimenticò prima d’averne bevuto una goccia. D’impulso si alzò e scese nell’andito, tolse da una cassapanca il mantello e un berretto da cacciatore, ed estrasse da un armadietto segreto il bastone noto col nome di Calamità di Malfezar. Poi suonò per chiamare Ladanque, il suo ciambellano e factotum di palazzo.
«Ladanque, penso che mi recherò a passeggiare nella boscaglia per qualche ora. Fai attenzione che la torbidità del Quinto Tino non aumenti troppo. Se credi, puoi cominciare a distillarne il contenuto nelle fiasche sigillate col grosso alambicco azzurro. Tieni bassa la fiamma ed evita di respirare i vapori: potrebbero causarti un’eruzione purulenta su tutto il volto».
«Come il Signore ordina. Cosa devo fare col sembiante?».
«Non prestargli attenzione. Non avvicinarti alla gabbia. E ricorda che i suoi discorsi sulle vergini e sulla ricchezza non sono che ingannevoli promesse. Dubito perfino che conosca il vero significato di quelle parole».
«Capisco perfettamente, Signore».
Rhialto si allontanò dalla sua magione. Scese lungo i prati d’erba tenera lungo un sentiero che serpeggiava fino alla riva del Ts, varcò il vecchio ponte di pietra canterina e s’inoltrò nella foresta.
Ben presto il percorso, tracciato dalle creature notturne che uscivano dai boschi per abbeverarsi al fiume, scomparve fra le erbacce. Rhialto proseguì di buon passo evitando il sottobosco più folto, attraversò radure dove spuntavano già le candoline, i rossi cespi dei pratospini e le bianche dymphne simili a lacrime nell’erba. Aspirò il profumo delle betulle, si chinò per passare sotto le fronde tremule dei salici che orlavano le sorgenti, aggirò creste e sporgenze rocciose incrostate di muschio e saltò agilmente minuscoli ruscelli silenziosi.
Se nella boscaglia si aggiravano altre creature, nessuna di loro lasciava intravedere la sua presenza. Sul bordo di una piccola radura nel cui centro svettava isolata una betulla bianca, Rhialto si fermò e tese le orecchie… ciò che udì fu solo il sospiro della brezza nel silenzio.
Trascorse un minuto. Rhialto era immobile come una statua.
Non si udiva un rumore, non un verso né un fruscio. Che avesse sognato?
La musica, rifletté, sempre che fosse stata tale, doveva essere esistita solo nella sua mente.
Questo era curioso, si disse Rhialto.
Avanzò allo scoperto, dove la betulla emergeva fragile e sottile da un viluppo di cedri neri dal tronco corto. E, mentre si volgeva per tornare indietro, di nuovo ebbe l’impressione di sentire la musica.
Musica senza suono? Una palese contraddizione di termini!
Inspiegabile, pensò Rhialto, specialmente considerando che la musica sembrava proprio giungere ai suoi sensi dall’esterno. Ora poteva percepirla meglio: le note fluttuanti di uno strumento a corde, un’armonia a tratti dolce, a tratti trionfante, a tratti malinconica. Ben definita e tuttavia al tempo stesso incerta, inafferrabile.
Lo sguardo di Rhialto balzò in ogni direzione. La musica, o qualunque altra cosa fosse, sembrava pervenire da una sorgente vicinissima. La prudenza avrebbe richiesto che tornasse sui suoi passi e si affrettasse a mettersi al sicuro a Palazzo Falu, senza fermarsi neppure a guardare indietro, ma egli proseguì. Attraversò una macchia di promeliacee e, poco più avanti, si trovò sulla riva di uno stagno, profondo e immobile, la cui acqua rifletteva le rocce della sponda con la cristallina nitidezza di uno specchio. E, rigido per lo stupore, Rhialto vide che nel riflesso della riva opposta si stagliava l’immagine di una donna, insolitamente pallida, con capelli d’argento fermati da un nastro nero attorno alla fronte. Indossava una tunichetta bianca lunga fino a metà coscia, che le lasciava nude le braccia, ed era scalza.
Rhialto rialzò lo sguardo sulla sponda: non c’era nessuna donna, nessun uomo, nessuna creatura vivente di qualsiasi genere. Abbassò di nuovo gli occhi sulla superficie dell’acqua e la, esattamente come prima, c’era l’immagine speculare della sconosciuta.
Per un lungo minuto Rhialto studiò quella visione. La donna appariva piuttosto alta, con seni piccoli e fianchi snelli, flessuosa e fresca come una fanciulla. Il suo volto ovale, dalle proporzioni classiche, lasciava intuire una calma interiore da cui era assente ogni sentimento frivolo. Rhialto, la cui abilità di evocatore gli aveva fatto meritare il nome che portava, la giudicò bella ma scostante e fredda, e con tutta probabilità inavvicinabile, in specie se ella avesse rifiutato di mostrarsi se non come un semplice riflesso… e forse anche per buone ragioni, fu costretto a dirsi, visto che d’improvviso gli era balenato un sospetto sull’identità di lei.
Le si rivolse in tono cauto. «Signora, devo presumere che mi abbiate chiamato qui tramite la musica? In tal caso, prego, vogliate spiegarmi che genere di aiuto vi occorre. Sia chiaro che non posso impegnarmi però in nulla, senza aver valutato i pro e i contro».
La donna rispose solo con un freddo sorriso che a Rhialto non piacque molto. Le rivolse un rigido inchino. «Se vi pare di non aver niente da dirmi, preferisco non disturbare oltre la vostra intimità», dichiarò. Ma un istante dopo qualcosa lo spinse alle spalle con forza scaraventandolo nello stagno a capofitto.
L’acqua era gelida come ghiaccio sciolto. Rhialto emerse con un colpo di reni, raggiunse la riva e si tirò all’asciutto. Chiunque fosse stato a giocargli quello scherzetto poco piacevole — entità arcana o essere umano — era già scomparso.
Preoccupato e furente, Rhialto tornò a lunghi passi a Palazzo Falu, si spogliò delle vesti fradice e s’immerse in una vasca da bagno colma d’acqua profumata, dove sostò pensoso bevendo the di verbena.
Quando si fu rivestito, passò dalla biblioteca e andò a sedersi nella stanza da lavoro, sfogliando per qualche ora dei vecchi tomi rilegati in metallo e risalenti al XVIII° Eone. Ma quel bagno freddo non era stato privo di conseguenze: dopo un po’ si accorse di avere la febbre, un ronzio nelle orecchie e noiosi dolori alla schiena.
Seccato, dovette decidersi a miscelare un tonico profilattico, a cui unì un febbrifugo a base di acònito che, come ben sapeva, gli avrebbe causato sofferenze ancora peggiori. Andò a letto, si mise una bottiglia d’acqua calda fra i piedi, inghiottì una pasticca di sonnifero e cadde in un sonno tormentoso.