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— Non mi riconosci, eh? — Sembrava che la cosa lo divertisse.

Cominciò a slegare le fasce che immobilizzavano Linc. — Non muovere quel braccio finché non sfilo la flebo — lo avvertì.

La flebo? Cos’era?

Linc non aveva mai sentito quella parola.

Il vecchio fluttuò leggero sopra al letto per raggiungere il tubo, e la sua forma massiccia oscurò la luce passando sopra a Linc.

— Sì — mormorò con la sua voce profonda, — è passato un sacco di tempo da quando ho registrato i nastri per voi bambini. Ormai sei un adulto… Come ti chiami?

— Linc.

— Linc… Linc… — Il vecchio si concentrò aggrottando la fronte. — Diavolo, è passato tanto tempo che non mi ricordo più niente. Devo dare un’occhiata in archivio.

Linc lo fissava attentamente, e più lo guardava più doveva convenire che c’era una certa somiglianza con l’uomo che parlava dallo schermo nella Ruota Viva. Ma mentre quello era vecchio, questo era… era antico. Anche le mani erano nodose, con grosse vene bluastre in rilievo. Ma aveva un corpo enorme, immenso.

Le dita nodose estrassero il tubo dal braccio di Linc e coprirono la ferita con un pezzo di plastica, così rapidamente che Linc non ebbe nemmeno il tempo di vederla.

— La flebo ti ha nutrito da quando ti ho portato qui… sei rimasto privo di conoscenza per quasi settanta ore.

— Ore? — ripeté Linc.

Il vecchio fece una smorfia di disappunto. — Già, immagino che voi non sappiate neanche misurare il tempo, vero? Linc scosse la testa.

— Non fa niente. Vediamo se riesci a star seduto. Vacci piano.

Linc si alzò a sedere, aggrappandosi all’orlo del letto per non volare via. Senza peso… forse sono davvero nel regno di Jerlet.

— Immagino di essere un po’ invecchiato — stava dicendo l’uomo. — Mi sono gonfiato come un pallone qui in gravità zero. Ma stammi a sentire, figliolo, io sono Jerlet. L’unico e il solo. Quelle mie immagini che vedete sugli schermi giù nella vostra area, be’, sono nastri registrati molto tempo fa. Allora ero più giovane. E voi eravate bambini.

Linc lo ascoltava appena. Si guardava le mani e i piedi fasciati. — Mi hai salvato dai topi.

— No, ti sei salvato da solo — precisò il vecchio. — Io ti ho salvato solo dal morire di freddo o dissanguato. Sei andato a sbattere contro il mio sbarramento elettrificato e ti sei preso una scossa che ti ha messo fuori combattimento. Ho dovuto uscire a prenderti. Non aspettavo visite. Ma mi fa piacere che tu sia venuto.

— Sei… sei davvero Jerlet?

Il vecchio assentì vigorosamente e i riccioli scomposti gli si agitarono intorno alla testa.

Linc si grattò la testa e si accorse che anche i suoi capelli lunghi fluttuavano privi di peso.

— Senti, piccolo, so di non essere molto presentabile, ma sono anni e anni che vivo qui solo… da quando tu e i tuoi coetanei arrivavate appena ai pulsanti dei selettori della cucina automatica.

— Perché ci hai lasciato?

Jerlet si strinse nelle spalle. — Stavo morendo. Se fossi rimasto giù, a gravità terrestre, la mia vecchia pompa non avrebbe retto.

— Cosa? Non capisco!

Jerlet gli sorrise, e quel sorriso era stranamente dolce nella vecchia faccia irsuta. — Vieni, ti spiegherò durante il pranzo.

— Cos’è il pranzo?

— Roba da mangiare. La migliore del mondo… di questo mondo, almeno.

Jerlet precedette Linc fuori dalla stanzetta lungo uno stretto corridoio così ripido che Linc riusciva a vedere solo fino a pochi passi davanti. Ma continuava a essere privo di peso.

— Qui non siamo proprio a gravità zero — spiegò Jerlet mentre percorrevano galleggiando il corridoio. — Ce n’è quel tanto che basta perché una cosa stia al suo posto, se l’appoggio. Ma coi tuoi muscoli abituati alla Ruota Viva devi avere l’impressione di una completa mancanza di peso.

Linc annuì anche se non aveva capito bene tutto. Dev’essere proprio Jerlet, pensò. Ma è completamente diverso da come lo immaginavo.

Passarono davanti a una porta doppia. — Laboratorio di biologia — disse Jerlet indicandola. — Dove siete nati tutti voi. Te lo mostrerò dopo.

Linc non aprì bocca. Le parole di Jerlet erano un enigma per lui.

Jerlet infilò a fatica la sua mole nell’apertura che dava in un’altra stanzetta dove c’erano un tavolo rotondo e alcune morbide sedie. Una parete era coperta di pulsanti, piccoli sportelli e strani simboli.

— Un selettore di cibi! — esclamò Linc. — Funziona?

— Certo! — rispose vivacemente Jerlet. — Guarda come sono grasso. Credi che abbia lasciato andare in malora i riciclatori di viveri?

Linc esaminò i pulsanti e i simboli che li contrassegnavano.

— Avanti — lo incitò Jerlet. — Prendi quello che vuoi. È tutta roba buona.

— Oh… — Linc aveva l’impressione di essere diventato improvvisamente stupido. — Come faccio a sapere cosa devo premere. Giù, a casa, lo sapevamo, prima che il selettore si guastasse…

— Si è guastato? — chiese Jerlet sorpreso. — I servomeccanismi non l’hanno riparato?

— Si sono rotti anche loro.

— E allora come… Vi preparate da mangiare da soli? Linc annuì.

Il vecchio pareva molto turbato. — Non credevo che le macchine si guastassero così presto. Specie quelle addette alle riparazioni. Non sono così intelligente come credevo. — Posò una mano sulla spalla di Linc. Quando riprese a parlare, la sua voce aveva un timbro strano, quasi come se avesse paura di quello che diceva. — Quanti di voi… sono ancora vivi?

— Più di tutte e due le mani — rispose Linc.

— Tutte e due le mani? Non conoscete i numeri? Non sai contare? Cosa ne è stato dei nastri didattici?

Linc ebbe l’impressione di averlo offeso. — Posso dirti i nomi di tutti. Va bene lo stesso?

Jerlet non rispose e Linc cominciò: — Prima di tutti naturalmente viene Magda, la sacerdotessa. Poi Monel, e Stav… — e proseguì elencando i nomi di tutti. Stava per nominare anche Peta, ma si trattenne.

— Cinquantasette — commentò Jerlet. Pareva molto scosso. Si allontanò dal selettore e si avvicinò a una sedia lasciandovisi cadere pesantemente, nonostante la gravità ridotta. — Cinquantasette su cento. In quasi quindici anni ne sono morti quasi la metà… — Si coprì la faccia con le mani.

Linc, immobile accanto al selettore, non sapeva cosa fare. Continuava a fissare la mole enorme del vecchio contenuta a stento nella sedia, meravigliandosi che nonostante la gravità così tenue le sue gambe sottili non cedessero al suo peso.

Finalmente il vecchio tornò a sollevare la faccia. Aveva gli occhi rossi. — Non capisci? — disse con voce rotta, tremante, come se pregasse. — Sono stato io a crearvi. Voi siete miei figli come se io fossi il vostro padre naturale… Vi ho creati e poi sono stato costretto a lasciarvi. E adesso la metà di voi è morta… Per colpa mia…

Linc lo guardava sbalordito.

Jerlet si districò dalla sedia e mosse con fare incerto verso Linc. — Non capisci? — Adesso parlava con voce forte, che sembrava un ruggito straziante. — È colpa mia! Voi dovevate essere i più belli, la nuova generazione, la migliore che fosse mai esistita! Eravate destinati a raggiungere il nuovo mondo… allevati con cura e amore… E INVECE SIETE UN BRANCO DI SELVAGGI IGNORANTI!

La sua voce rimbombava fra le pareti della stanzetta. Linc arretrò urtando inavvertitamente la tastiera del selettore.

— Cinquantasette! — tuonò Jerlet. — Selvaggi stupidi e ignoranti. — Avanzò barcollando verso Linc, poi si fermò, scosso da singhiozzi ansimanti. — No… Non adesso — mormorò fra sé. Ma fissava Linc, e i suoi occhi erano rossi e ardenti come quelli dei topi. Ma non esprimevano odio. Erano pieni di dolore.