— Non… capisci… niente? — ansimò il vecchio, con voce bassa e roca. — Non capisci? No, è al di fuori della tua comprensione…
Linc avrebbe voluto dire qualcosa, oppure scappare, ma era paralizzato e non riusciva neanche a ritrovare la voce.
Jerlet agitò debolmente una mano carnosa e uscì dalla stanza.
È pazzo pensò Linc. Come Robar quando cercò di entrare nel compartimento della morte insieme al corpo di Sheila. Quello che dice non ha senso.
Era incerto se seguire Jerlet, ma in quel momento si accorse che il selettore aveva deposto del cibo sul ripiano. Devo aver premuto dei bottoni quando mi sono appoggiato al muro pensò.
Il cibo, chiuso in involucri ben curati, era sistemato dentro piccoli contenitori su un vassoio. Linc diede un’occhiata alla porta.
Meglio lasciarlo solo. Se è veramente Jerlet, tornerà, pensò.
Portò il vassoio sul tavolo. Aprì gli involucri e guardò le strane cose che contenevano. In uno c’era un liquido dal colore strano, un colore che somigliava a quello di alcuni cavi elettrici della Ruota Viva. Era freddo al tatto. La seconda scatola era un contenitore oblungo pieno di una cosa che sembrava carne. Quando Linc sollevò la plastica trasparente che lo copriva emanò calore. Linc l’annusò. Aveva proprio odore di carne. Il terzo conteneva un ammasso informe di sostanza fredda e biancastra. Linc ci infilò un dito e se lo portò alla bocca. Era dolce! Non aveva mai assaggiato niente di simile, prima.
Senza pensare a scegliere altro, sedette al tavolo. Quella roba aveva un aspetto strano ma era buona.
Il suo primo pasto nel regno di Jerlet consistette in succo d’arancia, bistecca di soia e gelato di crema.
Linc dormì lì nella saletta da pranzo. Il pavimento era morbido e caldo, e lui vi si sdraiò e si addormentò subito.
In sogno vide Jerlet e alcune persone della Ruota Viva. Magda cercava di dirgli qualcosa, ma Monel si frapponeva tra loro. Era tutto strano e confuso.
Poi, sempre in sogno, cadeva nel buio coi diabolici occhi rossi dei topi che lo inseguivano. Gli occhi diventavano più tardi uno solo, enorme, accompagnato da un vocione tonante. Linc continuava a cadere nel vuoto e nel buio, aveva freddo, era solo e disperato…
Si svegliò con un sussulto. Giaceva a faccia in giù sul morbido pavimento della saletta, ed era madido di sudore. Doveva aver urlato perché aveva ancora la bocca aperta. Si mise a sedere, ormai completamente sveglio. I sogni svanirono negli oscuri recessi della mente, dove l’oblio copre tutto.
Piegò le ginocchia fino all’altezza del mento, circondandole con le braccia, e cercò di concentrarsi.
Subito gli venne da sorridere. «Magda, ovunque tu sia, perdonami. Non mi va di meditare. Non voglio chiedere a Jerlet cosa devo fare. Voglio scoprirlo da solo.»
Era divertente ma anche penoso. Per poco non sono morto cercando Jerlet, e quando l’ho trovato ho scoperto che è matto… Forse pericoloso gli venne fatto di pensare. Forse cercherà di farmi del male… di uccidermi. Era così furibondo all’ora dell’ultimo pasto.
Andò ad aprire cautamente la porta e sbirciò in quello strano corridoio angusto in forte pendenza. Nessuno in vista. Si avviò in punta di piedi socchiudendo altre porte. Nessuna traccia di Jerlet, sebbene due delle stanze fossero camere da letto complete di docce a ultrasuoni e rastrelliere piene di strani indumenti.
Qui tutte le macchine funzionavano. Linc notò che le luci erano vivide e non vacillavano. Quando entrò in una delle camere da letto la porta si richiuse automaticamente alle sue spalle. Girò un rubinetto, un beccuccio di metallo lucente posto al di sopra di una vaschetta dello stesso metallo, e l’acqua fluì subito limpida e fresca.
Scommetto che funziona anche la doccia a ultrasuoni.
Esaminò gli indumenti appesi a una rastrelliera nell’incavo della parete vicino al letto. A prima vista gli sembravano troppo piccoli per lui, ma quando provò una camicia scoprì che il tessuto cedeva e si adattava perfettamente alla sua misura. E così anche i calzoni.
Ed erano di tanti colori diversi!
Uno degli schermi a muro aveva una forma strana. Andava dal pavimento al soffitto ed era così stretto che se fosse stato una porta Linc ci sarebbe passato a malapena. E poi era luminoso e rifletteva con precisione tutto quello che c’era nella stanza. Linc non aveva mai visto uno specchio prima, ma ne approfittò istintivamente per rimirarsi mentre provava abiti di colori diversi. Alla fine si decise per una camicia a collo alto dello stesso azzurro dei suoi occhi e un paio di calzoni marrone. In un altro ripostiglio trovò scarpe leggere che gli si adattarono perfettamente.
— Salve!
Linc sussultò come se avesse preso una scossa.
— Salve! — ripeté la voce roca di Jerlet — Mi senti?
Veniva da un altoparlante a grata sul soffitto. Sulla parete davanti al letto c’era uno schermo, ma era spento.
— Senti, tu… accidenti, non mi ricordo come ti chiami. Insomma, figliolo, stammi a sentire, ieri ero sconvolto e mi sono comportato da idiota. Mi dispiace.
Linc notò una piccola tastiera sul tavolino accanto al letto. Si chiese se doveva provare a premere qualche pulsante.
— Non ti gioverà nasconderti. Prima o poi dovrai mangiare — stava dicendo Jerlet. — E io ti voglio aiutare. Te l’assicuro, figliolo. Ieri mi sono comportato in un modo… be’, ti spiegherò se me ne darai la possibilità. Attiva almeno uno schermo, così posso vederti… Ma come ti chiami, accidenti? So che me l’hai detto, ma hai fatto anche i nomi di tutti gli altri, e così adesso non ricordo… sarà perché invecchio.
Linc si avvicinò al tavolino con la tastiera dai pulsanti colorati. Gli girava la testa, non tanto per la gravità ridottissima quanto per lo sforzo di prendere una decisione. Lentamente, con riluttanza, allungò la mano…
— Se vuoi attivare uno schermo — stava dicendo Jerlet, — premi il pulsante rosso su una delle tastiere…
Il dito di Linc premette il bottone rosso e sullo schermo a muro di fronte al letto comparve il faccione irsuto di Jerlet.
— So che ieri sera mi sono comportato come un pazzo — stava dicendo con enfasi. — …Oh, eccoti.
Linc lo guardò negli occhi. Avevano un’espressione triste, addolorata.
— Linc. Mi chiamo Linc.
Jerlet chinò la grossa testa facendo tremolare le guance.
— È vero! Linc. Me l’avevi già detto ma non lo ricordavo.
Linc voleva rispondere ma non sapeva cosa dire.
Jerlet riprese a parlare. — Ho visto che ti sei lavato e cambiato. Bravo! Ci troviamo nell’autocucina, d’accordo? Ho tante cose da mostrarti.
— L’autocucina?
— Sì, la saletta dove c’è il selettore dei cibi.
— Ah, va bene. D’accordo.
— Sai come fare per arrivarci?
Linc assentì. — Troverò la strada.
— Va bene. Ci vediamo. — Il vecchio sorrideva contento. Sorrideva ancora quando infilò la sua mole attraverso la soglia dell’autocucina e veleggiò verso Linc tendendo la mano tozza.
— Linc, non so che abitudini avete voi giù nella zona abitabile, ma è una vecchia usanza umana che due persone si stringano la mano quando s’incontrano.
Imbarazzato e perplesso, Linc tese la mano.
Jerlet agitò un dito. — No, non quella… la destra.
Con una scrollata di spalle, Linc porse la destra e lasciò che Jerlet gliela stringesse. È più forte di quello che pensavo giudicò Linc dalla stretta energica del vecchio.