— Bene! — Jerlet era raggiante. — Adesso ci siamo presentati ufficialmente. Ho tante cose da mostrarti. — Si fregò le mani. — Cominciamo dal selettore. Ti faccio vedere come funziona.
Mangiarono abbondantemente. Jerlet mostrò a Linc una quantità di cibi nuovi che non aveva mai visto prima. Via via che mangiava si sentiva riscaldare piacevolmente lo stomaco, e i suoi sospetti su Jerlet svanirono.
Poi cominciarono a visitare il mondo privo di peso del vecchio. Questi mostrò a Linc i generatori di energia, quelle misteriose macchine ronzanti che fornivano l’elettricità a tutte le parti della nave. Poi fu la volta del computer principale, con le sue luci ammiccanti e le strane voci cantilenanti. Quindi una stanza piena di servomeccanismi, rigidi e immobili, con le braccia di metallo che pendevano lungo i fianchi, e i sensori disattivati.
— Sono morti? — chiese con voce intimidita Linc.
— Vorrai dire disattivati — corresse col suo vocione Jerlet. — Qua… lascia che ti faccia vedere. — Prese una piccola cassetta di comandi da uno scaffale e premette un pulsante sul coperchio. Il più vicino servomeccanismo si mosse voltandosi verso Jerlet sulle sue rotelle silenziose.
— Visto? Funzionano perfettamente.
— Giù da noi sono morti tutti da un pezzo — disse Linc.
Il vecchio sbuffò. — Bene, vedremo di provvedere.
Portò Linc lungo il corridoio fino a una porta doppia che dava in una strana stanza silenziosa. Linc sapeva di non esserci mai stato, eppure il lieve odore che vi aleggiava lo fece rabbrividire. La stanza era piena di sfere di vetro, di lunghe tubature ricurve, schermi, scrivanie, altri oggetti di vetro, metallo e plastica che Linc non aveva mai visto.
— È il laboratorio di genetica — spiegò Jerlet. La sua voce aveva un timbro diverso: un po’ orgoglioso e un po’ triste. — Qui sei nato tu, Linc. E tutti i tuoi compagni della sezione abitabile.
— Qui?
Jerlet annuì. — Sì. Abbiamo preso spermatozoi e ovuli da quei criofrigoriferi dietro lo schermo antiradiazioni lassù — indicò una massiccia parete metallica, — e portato a termine i feti in quelle capsule. Tutto eseguito con la massima cura, con precisione scientifica. Ogni esemplare è stato scelto per la sua perfezione genetica. Ogni neonato portato a termine è stato curato e allevato nel miglior modo dettato dagli psicologi. Una generazione di bambini mentalmente e fisicamente perfetti… Dei geni condannati a vivere in un ambiente idiota.
— Non ti capisco — disse Linc.
Jerlet indicò tutte le strutture del laboratorio con un largo gesto. — Io ero il direttore del progetto. Sono stato io a crearvi. Sì, voi siete stati creati tutti da me.
X
Prima che Linc facesse in tempo a porgli altre domande, Jerlet lo spinse fuori dal laboratorio, nel corridoio.
— Non hai ancora visto la parte migliore — disse.
Intontito e confuso, Linc seguì in silenzio il vecchio attraverso un portello in uno stanzino di metallo freddo e sinistro come il compartimento della morte. Anche se è pazzo, non ci farebbe entrare tutti e due nel compartimento della morte si disse Linc. Ma subito aggiunse: «Ne sei sicuro?».
La massa enorme di Jerlet riempiva tutto lo stambugio. Linc riusciva a malapena a respirare.
— Qui si sta scomodi in due — mormorò il vecchio mentre premeva una complicata serie di pulsanti. — Anzi, a pensarci bene, ci sto parecchio scomodo anche da solo.
Il soffitto si spalancò e Linc capì che era un portello. Jerlet gli sorrise, poi si diede una spinta contro le pareti del bugigattolo e salì fluttuando attraverso l’apertura. Linc tirò un sospirone, felice di non sentirsi più schiacciato.
— Vieni su a vedere il panorama! — gli gridò Jerlet, e la sua voce suonava lontana, atona.
Linc flette le ginocchia e si diede una spinta. Salì come una freccia attraverso il portello e oltrepassò il corpo obeso di Jerlet che galleggiava a mezz’aria… e improvvisamente urlò di terrore. Si trovava nel buio esterno! Circondato dalle stelle e dalla tenebra, dove non c’era aria, né calore, né…
Una mano gli afferrò la caviglia. — Ehi, vacci piano! — gli gridò Jerlet, e Linc si accorse che c’era aria e faceva caldo.
Jerlet ridacchiava mentre fluttuavano lentamente nel buio pieno di stelle. Però non era proprio buio. Le stelle brillavano, circondandoli da ogni parte.
— Dove siamo? — chiese Linc, e anche la sua voce suonò strana, remota, atona.
— Era un osservatorio — rispose Jerlet.
Gli occhi di Linc si adattarono alla semioscurità. Si trovavano in un ampio locale rotondo quasi tutto di vetro. In effetti si trattava di plastica, ma Linc non lo sapeva ancora. Lo splendore delle stelle che punteggiavano il nero dello spazio li circondava da ogni parte. Stelle bianche, azzurre, rosse, gialle… un’infinità di stelle e anche roteanti ammassi luminosi, spirali che brillavano rosse e azzurre.
Linc guardava a bocca aperta mentre galleggiavano in quell’ambiente a gravità zero, nell’enorme cupola dell’osservatorio che si apriva sull’immensità dell’universo.
Quando guardò in basso (o per lo meno dove si trovavano in quel momento i suoi piedi) vide, vicinissima, la stella gialla. Linc chiuse gli occhi, ma la sua immagine continuò a splendere sotto le palpebre.
— Ci arriveremo presto, figliolo — disse vicino a lui la voce di Jerlet.
Linc riaprì gli occhi, e vide accanto a sé la faccia di Jerlet, incorniciata dall’alone dell’immagine retinica della stella gialla. — Viene a ingoiarci — sussurrò Linc. — Ci brucerà vivi.
La risata rimbombante del vecchio lo colse di sorpresa, riecheggiando nell’ampia cupola.
— Sbagli in pieno, figliolo — disse poi. — La stella gialla non viene verso di noi. Siamo noi che andiamo verso di lei. E non ci ucciderà, ma ci darà vita. Speranza… Se riusciremo a raggiungerla prima che questa tinozza vada definitivamente a pezzi.
Linc stava per dire non capisco, ma l’aveva detto tante volte che si vergognava di ripeterlo ancora.
— Vieni qua che ti faccio vedere una cosa — disse Jerlet afferrandolo per un polso.
Galleggiarono nel vuoto nuotando verso una macchia d’ombra più profonda della semioscurità circostante. Avvicinandosi, Linc vide una specie di grata sottile, e Jerlet tese la mano con gesto esperto.
— Attento — disse a Linc. — Rallenta o ti farai male quando toccherai il ponte. La mancanza di peso non significa che tu non abbia inerzia.
Non è capace di dire tre parole sensate in fila, pensò Linc. Usa parole che non ho mai sentito prima.
Il ponte era di metallo freddo, e Linc notò diverse scrivanie con strumenti strani. Il più grande pendeva su di loro: era un cilindro composto di sezioni metalliche che Jerlet toccò dicendo: — È un telescopio. Facevamo una fatica del diavolo a tenerlo allineato. Il vecchio programma del computer non ce la faceva più a stare alla pari coi nuovi dati, e io non so come aggiornarlo. Anche i giroscopi devono essere sfasati.
Linc si limitò a scuotere la testa.
Jerlet inserì a fatica la sua mole enorme su un sedile davanti a una scrivania. — Da’ un’occhiata a questo schermo — disse premendo qualche pulsante.
Linc notò che tutto il ripiano era coperto da file e file di bottoni.
Lo schermo si illuminò e apparve un’enorme palla gialla infuocata che vibrava tutta emettendo lingue di fuoco.
— È il sole giallo verso cui siamo diretti — disse Jerlet. — Ho cercato per anni di trovare il nome che le avevano dato le vecchie generazioni, ma sui nastri non ci sono elenchi di stelle. O per lo meno non li ho trovati. Comunque io l’ho chiamata Baryta, per il suo calore e a ricordo dei miei antichi studi di chimica. Ecco, la nostra stella si chiama Baryta.