«Impararono a trasformare oggetti solidi in raggi di energia, e poi a farli ritornare solidi com’erano prima — disse Jerlet. — Ma per fare quello che realmente volevamo era necessaria una quantità enorme di energia. Non ci fu possibile usare questo sistema per trasferirci di nuovo sulla Terra, ma quando saremo abbastanza vicini a Beryl, potrai scendere in un batter d’occhio sulla superficie del pianeta.»
— Ma noi, i bambini della Ruota Viva, da dove siamo venuti fuori? — non si stancava di chiedere Linc. — Perché ci avete creato?
Allora Jerlet sorrideva. — Finalmente trovammo una stella simile al Sole, intorno alla quale ruotavano alcuni pianeti. Sebbene fossimo ancora troppo lontani per vedere se qualche pianeta era veramente uguale alla Terra, decidemmo di correre il rischio… Del resto non avremmo potuto fare diversamente. Sapevamo che la nave non avrebbe potuto resistere ancora per molto.
«Stavo avvicinandomi alla mezza età quando iniziammo il programma che vi avrebbe fatti nascere in laboratorio. Cento esemplari perfetti, fisicamente robusti e intellettualmente dotati al massimo delle possibilità. Cento superuomini e superdonne.
«Be’, il programma riuscì e vi sistemammo giù nella sezione abitabile, nella ruota a un g, vicino alla plancia. Rimanemmo in sei a sorvegliarvi durante i primi anni, per essere sicuri che cresceste nel modo migliore. Naturalmente tutto il lavoro materiale veniva sbrigato dai servomeccanismi. Ma che fatica, e che baccano c’era laggiù. Quando voi avevate appena imparato a camminare fecero irruzione alcuni banditi. Riuscimmo a proteggervi, ma due di noi ci rimisero la pelle. Uno dei due era mia moglie…»
Linc sapeva che moglie voleva dire una ragazza che aveva finito di crescere.
— Nessuno può vivere indefinitamente in un ambiente a un g. Eravamo vissuti troppo a lungo quassù, a zero g. Io fui quello che resistette più a lungo, e lavorai sodo per aver la certezza che macchine e servomeccanismi continuassero a funzionare e si prendessero cura di voi fin quando non foste cresciuti abbastanza da cavarvela da soli. Intanto i miei amici eliminarono sistematicamente tutti i banditi. Non potevamo permettere che tentassero un’altra volta di fare irruzione nel vostro ambiente.
— E poi ci hai lasciato?
Jerlet annuì tristemente. — Sono stato costretto a farlo. La forza di gravità mi aveva fatto ammalare. Il mio cuore cominciava a cedere. Dovevo tornare quassù. Poi, mentre voi crescevate, tutti gli altri miei amici morirono, molti in un incidente giù in plancia. Io sono l’ultimo superstite.
Linc ascoltò più volte questo racconto, ma una sera, mentre Jerlet tornava a raccontarlo, lo interruppe per dire: — Be’, almeno avrai la consolazione di venire con noi sul nuovo mondo… se la nave ce la farà.
Jerlet lo guardò a lungo. — Sta a te fare in modo che questa tinozza riesca ad arrivare fino a Beryl e a entrare in orbita. Per questo ti sto insegnando tante cose, Linc. Ho passato tanti anni nell’attesa che cresceste e veniste da me. Ora sta a te manovrare la nave e depositare sani e salvi tutti voi sulla superficie del pianeta.
Seguì un silenzio prolungato. Poi Linc disse con solennità: — Lo farò. Porterò tutti a Beryl a costo di uscire e spingere la nave con le mie mani.
Jerlet si mise a ridere. — Vorrei proprio vederti!
— Ce la farò. Porterò tutti su Beryl. Te compreso.
Ma il vecchio scosse la testa. — No, io no. Non posso uscire da questo ambiente a gravità zero. Mi scoppierebbe il cuore solo se scendessi di qualche livello, dove la gravità comincia a farsi sentire.
— No… troveremo il modo… qualcosa…
— Ascolta, figliolo — disse calmo Jerlet. — Io sono vecchio. Può darsi che non ce la faccia neanche ad arrivare in orbita intorno a Beryl. Per questo ti sprono con tanta insistenza. È tutto sulle tue spalle, Linc. Tu sei la differenza fra la vita e la morte per i tuoi compagni.
LIBRO SECONDO
XI
La tuta a pressione, gonfiata, stava davanti a Linc come un essere umano. Ma la faccia, il visore del casco, era scura e vuota. Linc tastò tutte le giunture per assicurarsi che non ci fossero crepe: caviglie, ginocchia, fianchi, polsi, spalle. Tutto a posto.
Mise in funzione i sensori a pressione intorno al giunto a tenuta stagna del collo, dove il casco a globo si innestava nel tessuto azzurro della tuta, e sorrise pensando: Solo qualche mese fa avrei pensato che fosse uno spirito maligno o un fantasma. Mi avrebbe spaventato a morte.
Dopo aver constatato che la tuta era a tenuta stagna, Linc premette un pulsante sulla cintura e l’aria torno con un sospiro prolungato nelle bombole sistemate sul dorso della tuta stessa che cominciò ad afflosciarsi e non cadde soltanto perché le bombole erano appese alla paratia dell’officina.
Mentre guardava la tuta sgonfiarsi, Linc pensò a Jerlet. È molto giù in questi giorni. Dimagrisce e fa sempre più fatica a muoversi.
Andò a premere un pulsante rosso sulla tastiera accanto al piccolo schermo inserito nel bancone. — Salve, Jerlet. Ho finito con la tuta — disse.
Sul minuscolo schermo apparve la faccia del vecchio, più stanca del solito, come se quella notte non avesse dormito.
— Bene — borbottò. — Vieni nell’osservatorio. Ho una bella notizia.
Linc uscì dall’officina, percorse il breve corridoio e passò nel compartimento stagno. Ormai si muoveva con disinvoltura in quell’ambiente a gravità ridottissima, senza farci neanche più caso, e quando risalì fluttuando nell’ampia cupola buia dell’osservatorio non fu più preso dal panico alla vista dell’universo che lo circondava da ogni parte.
Eppure era sempre uno spettacolo emozionante.
Ormai lo splendore della stella gialla era tale da far scintillare le strutture metalliche del telescopio principale. Jerlet sedeva al banco avvolto in una tuta termica d’emergenza. Eppure disse fra sé Linc qui non fa freddo.
Evidentemente Jerlet non era dello stesso parere. Mentre premeva i pulsanti per manovrare il telescopio e gli altri strumenti gli tremavano le dita.
Linc si portò alla scrivania ancorandosi con un piede alla sedia di Jerlet. Il vecchio alzò gli occhi e gli rivolse un sorriso stanco. La sua faccia ricordava a Linc una vecchia immagine della Terra: un fiume bellissimo che si snodava attraverso una profonda valle incassata fra colline scabre e terre impervie.
— Finalmente sono riuscito a mettere in funzione l’analizzatore dello spettro — mormorò senza tanti preamboli Jerlet. — Mi ci è voluta tutta la notte, ma, alla fine, ce l’ho fatta.
— Dovresti riposare di più — gli disse Linc.
Il vecchio scosse la testa.
— Penseremo a riposarci quando saremo arrivati. Qua… guarda questo.
Premette alcuni pulsanti e sullo schermo sopra al banco comparve l’immagine di Beryl. Era verdazzurra e bellissima, una delicata falce sospesa nello spazio, picchiettata di nuvole candide e sormontata da una calotta polare di ghiaccio abbacinante.
— E adesso guarda… — Jerlet premette altri pulsanti.
L’immagine sparì per essere sostituita da uno strano susseguirsi di colori brillanti che andavano dal viola al rosso cupo.
Socchiudendo gli occhi davanti a quella vista per lui insolita, Linc notò che quelle fasce colorate erano intersecate verticalmente da centinaia di sottili righe nere.
— Questo è lo spettrogramma del pianeta — spiegò Jerlet. — Una specie di impronta personale di Beryl. Come le impronte digitali per gli uomini. Sai che cosa sono, non è vero?