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— Le impronte digitali? — ripeté perplesso Linc.

Jerlet si grattò la faccia rugosa. — Già, non sai cosa sono. Be’, qual è il programma per pranzo?

— Dovremmo riesaminare il tragitto che seguirò per tornare alla Ruota Viva.

— Già. E per cena?

— Non ci abbiamo ancora pensato. — Lui e Jerlet avevano stabilito un programma per ogni pasto. Se Linc aveva da porre domande che esigevano una lunga spiegazione, Jerlet approfittava dell’ora dei pasti per soddisfarlo.

— D’accordo. A cena l’argomento saranno le impronte digitali. Magari ti parlerò anche degli schemi retinici e delle impronte vocali.

Linc annuì. Non capiva ma sapeva che Jerlet gli avrebbe spiegato tutto.

— E adesso, tornando allo spettrogramma — riprese il vecchio, — devi sapere che ci spiega di cosa è fatta l’aria di Beryl… di quali elementi è composta la sua atmosfera.

Linc inarcò le sopracciglia incuriosito. — Come è possibile?

Jerlet tornò a sorridere e spiegò pazientemente che la luce del pianeta era scomposta in un arcobaleno di colori dai prismi dello spettrografo; lo spettrografo andava inserito nel telescopio, e ogni elemento e ogni composto lasciavano il proprio marchio distintivo nello spettro di Beryl.

Linc ascoltava e imparava. Di solito gli bastava ascoltare una cosa una volta sola per non dimenticarla più.

— E qui — la voce di Jerlet tremava per l’eccitazione, — c’è l’analisi fatta dal computer confrontata con quella dell’atmosfera terrestre.

Dicendo ciò, premette un pulsante e Linc lesse sullo schermo:

COMPONENTI ATMOSFERICI

BERYL | TERRA

AZOTO 77,23% | 78,09%

OSSIGENO 20,44% | 20,95%

ARGON 1.01% | 0.93%

DIOSSIDO DI CARBONIO 0,72% | 0,03%

VAPORE ACQUEO: variabile fino a un massimo dell’1,8% | variabile fino a un massimo dell’1,5%

Linc studiò i numeri per qualche istante, poi guardò Jerlet: — Sono quasi uguali a quelli della Terra, ma non identici.

— Abbastanza uguali perché si possano considerare gemelli — esclamò raggiante Jerlet. — Più simili di così è impossibile. Un briciolo meno di ossigeno e un po’ più anidride carbonica, ma può darsi che questo sia dovuto al fatto che Beryl è un pianeta più giovane della Terra. C’è una gran quantità di clorofilla dovunque. Questo sta a indicare la presenza di vegetazione, come sulla Terra.

— Allora ci possiamo vivere.

Jerlet annuì energicamente. Cercò di parlare, ma senza riuscirci, e solo dopo qualche secondo mormorò con voce soffocata: — Sì, potete viverci.

Linc vide che aveva gli occhi pieni di lacrime.

— Devo andarlo a dire agli altri — disse il ragazzo. — Saranno tutti terrorizzati da Baryta. Credono che il sole giallo voglia bruciarci e ingoiarci.

— Lo so — disse Jerlet.

— Bisogna che torni da loro al più presto — continuò Linc. — Devono sapere di Beryl. Bisogna che li persuada a non aver più paura.

Jerlet annuì stancamente.

— Se son convinti di dover morire, non si può prevedere come reagiranno…

— D’accordo! — esclamò Jerlet dando una manata al piano del banco. Colto di sorpresa, Linc sussultò e si allontanò fluttuando di qualche metro. — Lo so bene che devi tornare da loro, maledizione. — La capigliatura scomposta del vecchio sembrava un alone fantastico.

— Lo so… ma è che non voglio più rimanere solo. Vorrei tanto che tu restassi qui con me.

Afferrandosi al sostegno del telescopio, Linc si diede una spinta per tornare vicino al vecchio.

— Ma sai bene che devo farlo — gli disse.

— Sì, lo so — ripeté Jerlet con tristezza. — Ma non per questo sono obbligato a essere contento. Nessuna legge della termodinamica sostiene che debba piacermi l’idea di tornare a rimanere solo.

Senza rendersene conto, Linc aveva trattenuto il fiato, ed ora lo esalò in un lungo sospiro. Per un momento aveva avuto paura della reazione di Jerlet. Ma adesso che il vecchio aveva ripreso a scherzare, pure con i suoi modi bruschi, capì che non doveva preoccuparsi. Sarebbe andato tutto bene. Jerlet non avrebbe cercato di trattenerlo.

Il resto della giornata proseguì normalmente. Jerlet rimase nell’osservatorio a studiare Beryl, e Linc scese nell’officina a studiare i nastri delle memorie del computer per imparare come funzionavano e come si potevano riparare gli strumenti e le apparecchiature del ponte di comando.

Questa sarà la parte più ardua della faccenda pensò. Liberare la plancia dai cadaveri e rimettere in funzione gli strumenti. Rabbrividì involontariamente.

A cena, quella sera, Jerlet si lanciò in una lunga dimostrazione sulle impronte digitali, gli schemi retinici, le impronte vocali e tutti gli altri aspetti del lavoro d’indagine.

Linc era confuso. — Perché prendersi tanti fastidi? Ci Conosciamo tutti, no? Perché non limitarci a chiedere a un altro chi è?

Jerlet per poco non si soffocò con un boccone di bistecca sintetica, e poi cominciò a parlare dei crimini e del lavoro della polizia. Quando ebbero finito di mangiare e i piatti furono introdotti nel riciclatore, Linc chiese: — E va bene, ma chi ha ideato il sistema? Chi ha scoperto che le impronte digitali sono sempre diverse da persona a persona? Kirchhoff e Bunsen?

Jerlet si diede una manata sulla fronte. — No, no! Quei due hanno elaborato i principi della spettroscopia. La tecnica delle impronte digitali è opera di un poliziotto. Un inglese che si chiamava Sherlock Holmes, mi pare. Ci dev’essere un nastro nel computer che spiega bene tutto.

Linc si esaminò i polpastrelli e vide l’insieme di sottili righe curve che formavano dei disegni. Quando rialzò gli occhi, Jerlet era paurosamente impallidito e grosse vene bluastre gli pulsavano sulla fronte.

— Cosa c’è?

— Ahhh… che male — ansimò il vecchio. — Devo aver… mangiato… troppo… troppo in fretta…

Linc si alzò e gli andò vicino.

— No… mi… passerà…

Senza stare a discutere, Linc lo sollevò dalla sedia e lo spinse a spallate. Avrebbe voluto portarlo in braccio, ma era tanto grosso che non riusciva ad abbracciarlo, anche se la gravità ridotta rendeva sopportabile il suo peso.

Lo portò in infermeria. Jerlet ansimava e gemeva mentre Linc lo adagiava sul lettino. Dopo aver attivato la tastiera sul piedistallo metallico accanto al letto, Linc accese i sensori medici. L’infermeria era quasi completamente automatizzata, e Linc non capiva come funzionassero gli apparecchi, ma tenne d’occhio lo schermo sulla parete sopra al letto. Lesse le cifre corrispondenti alle pulsazioni, al respiro, alla temperatura corporea, alla pressione del sangue… Erano tutte rosse, il colore del pericolo. La sinuosa linea verde che tracciava il battito del cuore era discontinua e molto irregolare.

— Cosa devo fare? — chiese Linc a voce alta. Ma gli apparecchi non risposero.

Fu Jerlet a dire con voce rotta: — Premi… il pulsante d’emergenza… di’ al computer medico… attacco cardiaco…

Linc eseguì e sullo schermo apparvero le istruzioni sulla terapia da seguire e su come installare una pompa ausiliaria ventricolare automatica. Linc seguì le istruzioni via via che comparivano sullo schermo. Perse il senso del tempo, ma finalmente riuscì a installare intorno a Jerlet tutte le scintillanti macchine di metallo e di plastica che si agganciarono automaticamente alle braccia e alle gambe di Jerlet.

Ma i numeri sullo schermo erano sempre rossi.

Linc rimase seduto al capezzale. Ogni tanto Jerlet perdeva conoscenza, tornava in sé, ricadeva di nuovo nel torpore.