Ma Jerlet era stato un ottimo istruttore Linc vedeva che la superficie esterna del tubo-tunnel era contrassegnata da un succedersi di incavi e sporgenze. Doveva posare i piedi negli incavi e sostenersi alle sporgenze con le mani. Le suole metalliche degli stivali erano leggermente magnetizzate, cosicché doveva fare un piccolo sforzo per sollevare i piedi. L’ossigeno gli dava un po’ alla testa, ma si sentiva caldo e sicuro dentro alla tuta.
Ma soprattutto doveva evitare di guardare le stelle. Dopo aver ammirato per qualche attimo quella stupefacente visione, Linc si rese conto che la rotazione della nave non gli avrebbe permesso di guardare le stelle e procedere contemporaneamente in linea retta.
Così, sia pure con lieve disappunto, tenne gli occhi fissi sulle luci gialle, sugli incavi e sulle sporgenze che contrassegnavano la strada verso la Ruota Viva.
Non si rendeva conto del passare del tempo. Era già tutto sudato ed esausto un bel pezzo prima di arrivare alla Ruota Viva.
Sapeva che avrebbe dovuto aver fame, perché all’interno della tuta aveva a disposizione solo l’acqua. Ma era troppo stanco ed eccitato, e desiderava solo arrivare alla meta.
Via via che si avvicinava alla ruota più esterna la forza di gravità cominciò a farsi sentire. Gli incavi si trasformarono in una serie di gradini che salivano a spirale intorno al tubo-tunnel. A ogni passo la sensazione di «sopra» e «sotto» aumentava e invece di procedere lungo un sentiero, Linc si ritrovò a scendere una scala a spirale.
E poi, quasi senza accorgersene arrivò. L’ultima luce gialla ammiccante fu seguita da un cerchio di piccole luci blu che incorniciavano il portello esterno di un compartimento stagno.
Linc si soffermo a lungo coi piedi che aderivano magneticamente all’ultimo gradino della scala, una mano chiusa sull’ultimo sostegno. Esaminò il quadro dei comandi di fianco al portello. Con la coda dell’occhio vedeva le stelle ruotare maestosamente mentre la ruota più grande girava lenta intorno al mozzo lontano. Aveva percorso una lunga strada.
Premette con la mano libera i pulsanti per far aprire il portello.
Per un’eternità non successe niente. Poi, con estrema lentezza, il portello cominciò a socchiudersi di lato. Nel vuoto non si potevano sentire i rumori, ma Linc era sicuro che il portello dovesse cigolare.
Entrò nel vano del compartimento, e premette i pulsanti per attivarne i meccanismi. E se non funzionassero? si chiese preso da un improvviso senso di panico. Dovrei tornare indietro fino al mozzo e poi scendere all’interno del tubo.
Ma per fortuna le macchine fecero il loro dovere. Il portello esterno si richiuse, l’aria riempì sibilando il vano, le luci sul pannello passarono dal rosso, al giallo e al verde e finalmente il portello interno cominciò a socchiudersi.
Linc varcò la soglia. Era arrivato a casa.
Il corridoio era vuoto. Come sempre, da questa parte, ricordò. Dopo tutto, loro chiamano questo vano il compartimento della morte. Non è un posto allegro.
Si avviò a passi pesanti lungo il corridoio, verso la zona abitata. Era stanco, oppresso da un senso di pesantezza, e solo poco per volta si rese conto che lì, dove la forza di gravità era normale, tuta e bombole pesavano quasi quanto lui.
Ma era troppo eccitato e impaziente per fermarsi a sfilare la tuta.
Si trovava in prossimità della fattoria quando dalle ampie porte doppie uscì un gruppo di uomini.
Linc avrebbe voluto correre loro incontro, ma aveva le gambe così stanche che riuscì solo ad avanzare barcollando.
— Ehi! Sono io… Linc! — gridò agitando le braccia.
Gli uomini si fermarono di colpo. Erano sette; sette facce striate di sporcizia e di sudore che lo fissavano a bocca aperta con gli occhi sbarrati.
— Stav… Cal… Sono io, Linc?
Un’espressione di terrore stravolse quelle facce, e gli uomini si diedero alla fuga urlando.
Linc si fermò ridendo. Non hanno visto me, ma la tuta! Sfilò i guanti per poter svitare il casco e farsi vedere in faccia.
Probabilmente non mi hanno neppure sentito, dall’interno di questa palla, pensò.
Non aveva ancora finito di togliersi il casco, che Stav e altri tre si affacciarono cauti dietro l’angolo del corridoio brandendo pezzi di tubo. Avanzavano lenti, con prudenza, ma non avevano modo di nascondersi. La vista di Linc li arrestò, sopraffatti dal terrore.
Linc sollevò le braccia, ma rendendosi conto che non avrebbero potuto sentirlo dato che aveva ancora il casco avvitato in parte, attivò la radio inserita nella tuta.
— Mi manda Jerlet — disse. L’altoparlante amplificò la voce facendola echeggiare fra le pareti dello stretto corridoio. Linc abbassò il volume.
— Sono io, Linc. Sono tornato. Jerlet mi ha rimandato da voi.
Uno degli operai lasciò cadere l’arma improvvisata e si buttò in ginocchio.
Stav lo guardò con aria di rimprovero, senza perdersi d’animo. — Che specie di mostro sei? Cosa ne hai fatto di Linc?
— Aspettate — disse Linc. Finì si svitare il casco e lo sfilò.
— Non sono un mostro, Stav — disse, senza ricorrere alla radio. — Sono Linc. Sono tornato da voi. Mi ha mandato Jerlet.
Anche Stav e l’altro caddero in ginocchio.
Linc impiegò parecchi minuti a convincerli che era proprio lui in carne ed ossa, e che il mostro era solo uno strano indumento.
Gli altri lo fissavano con un misto di fascino e di paura mentre si liberava dalle bombole e si toglieva i pesanti stivali.
Il primo a riprendersi fu Stav.
— Sei… sei proprio Linc!
Si rialzò lentamente, imitato dagli altri, ancora un po’ dubbiosi.
— Ma certo che sono Linc.
— Te n’eri andato. Monel e gli altri dicevano che eri morto — balbettò uno degli operai.
— Non sono morto. Magda ha mai detto che lo ero? I quattro si scambiarono occhiate perplesse.
— No, non credo — rispose Stav.
Linc tirò un sospirone. — Non sono morto — ripeté. — Sono vivo e normale come voi. Ho trovato Jerlet, che mi ha raccontato tante cose e mi ha dato questo abito che si chiama tuta spaziale per proteggermi, affinché potessi tornare da voi. Mi ha anche dato una bella notizia. La stella gialla non ci ingoierà. Ci porta la vita, non la morte.
Ma evidentemente la buona notizia non li colpì. Tuttavia almeno non erano più spaventati.
Stav gli si avvicinò per toccarlo. Lo scrutò da vicino e finalmente un lento sorriso si dipinse sulla sua larga faccia inespressiva.
— Sei proprio Linc.
— Certo, Stav. E sono felice di rivederti. Vuoi accompagnarmi da Magda?
— Sì, sì, certo — consentì Stav. — Ma credo che Monel ci raggiungerà prima che arriviamo da lei.
Monel arrivò trafelato, seguito da quattro uomini. Erano tutti armati con pezzi di tubi e coltelli da cucina.
Stav e i suoi colleghi portavano il casco, gli stivali e i guantoni di Linc, con timore reverenziale. Linc indossava ancora la tuta e si sentiva un po’ ridicolo coi piedi coperti dalle sole calze e le mani nude che sporgevano dal goffo indumento.
— Sei proprio tu! — esclamò Monel come se si rifiutasse di credere ai propri occhi.
— Esatto — rispose Linc guardandolo con durezza. — Sono tornato. Mi ha mandato Jerlet.
— Jerlet? Non pretenderai che crediamo…
— Non pretendo niente da te — tagliò corto bruscamente Linc. — Sono qui per parlare con Magda, non per perder tempo in discussioni inutili con te.