Programmò il servomeccanismo e la macchina si avviò ubbidiente verso il portello, sollevò il braccio snodato per manovrare i pulsanti che l’aprivano, e uscì.
Linc inarcò la schiena indolenzita. Lo schermo principale del ponte era messo a fuoco su Baryta. Il sole giallo non era più soltanto una stella luminosa. Era diventato un disco così abbagliante che anche attraverso i filtri abbacinava gli occhi. Vicino a Baryta era sospesa una stella azzurrina: anche Beryl era visibile a occhio nudo. Ma nessuno era venuto a dirgli che aveva visto Beryl. Nessuno era venuto a dirgli che credeva a quanto aveva detto.
— Lasciamoli a meditare e a morire di paura — borbottò mentre si avviava stancamente verso l’alloggio che si era fatto allestire dai servomeccanismi. Aveva la voce rauca, gracchiante, tanto poco aveva parlato negli ultimi tempi.
Comincia a somigliare a quella di Jerlet pensò.
Guardò il portello a tenuta stagna che dava sul corridoio, mentre percorreva la lunga curva del ponte. Di tanto in tanto qualcuno sbirciava dentro attraverso il finestrino, o almeno così gli pareva. Ma forse non era vero. — Te li sei immaginati! — esclamò. — Vorresti che venissero da te e così immagini di vedere delle facce. Fra poco parlerai coi fantasmi…
Tutti avevano visto quando i servomeccanismi, diretti da lui, avevano portato i corpi nel compartimento della morte. Erano rimasti a guardare affascinati, in preda al terrore, e nessuno si era offerto di aiutarlo. Dopo il primo momento di sorpresa, se l’erano data a gambe ed erano corsi a chiudersi a chiave nei loro alloggi.
Il finestrino era buio, come sempre… ma… c’era una faccia! C’era davvero!
Linc si fermò a guardar meglio. La faccia era sempre lì. Non poteva distinguerne i lineamenti. Vide solo che era sormontata da una capigliatura bionda.
Dopo un attimo d’incertezza, Linc si avvicinò al portello. La faccia rimase dov’era.
Linc spalancò il portello. Dall’altra parte c’era Jayna, con un fagotto in mano.
— S… salve — gracchiò Linc.
Lei lo fissava con aria atterrita. Ma non scappò.
— Ti ho portato da mangiare — disse, con voce sottile e tremula.
Ha l’aria così spaventata pensò Linc. Spaventata e indifesa. E com’è carina!
— Grazie — le disse, prendendo il pacco.
— Sono già venuta altre volte, ma tu non mi hai mai visto.
— Avresti dovuto bussare.
— Oh, no… non volevo disturbarti!
— Sarei stato felice di avere un po’ di compagnia. Mi sento molto solo, qui, senza nessuno con cui parlare; salvo le macchine, che non rispondono.
— Oh.
Se ne stavano lì a guardarsi, impacciati, sulla soglia.
— Perché non entri a vedere quello che sto facendo? — propose Linc.
L’espressione impaurita si accentuò.
— Non devi aver paura — sorrise Linc. — Ho portato via i fantasmi e rimesso tutto a posto. — Allungò la mano, e dopo un attimo d’incertezza lei la strinse. Quel contatto morbido e caldo fu un dolce balsamo per lui.
Superarono la soglia, e Linc chiuse il portello.
— Monel e Magda sanno che sei venuta qui?
— No — rispose Jayna, — ma anche se lo sapessero non m’importerebbe. Stanno diventando matti tutti quanti. La stella gialla diventa sempre più grande e più calda, ma loro dicono che se lavoriamo sodo e meditiamo più a lungo se ne andrà. Invece non è vero!
— Ed è meglio che sia così — commentò Linc con un sorriso amaro. — Ci offre la nostra unica possibilità di sopravvivenza. Nessuno ha notato la stellina azzurra che le sta vicino?
— Sì, qualcuno. Però Monel dice che non esiste, che è un trucco fatto apposta per ingannarci.
— Uff! Quel «trucco» è Beryl, il nostro nuovo pianeta, se mai riusciremo ad arrivarci. — Si avviò lentamente verso la fila dei banchi allineati lungo tutta la paratia curva del ponte di comando, e depose il pacco su uno di essi.
— Un trucco, eh? E chi ne sarebbe l’autore? Monel ve l’ha detto?
— Sì… tu.
— Me lo immaginavo.
Poi mostrò alla ragazza le apparecchiature del ponte di comando, soffermandosi sugli strumenti e i sensori che aveva già riparato. Lei guardò ammutolita dalla meraviglia quando Linc fece apparire sugli schermi che correvano lungo la paratia curva immagini di Beryl.
— I sensori cominciano a darci informazioni sulla distanza, sui mutamenti di rotta che dobbiamo effettuare per poter raggiungere il nuovo mondo… — le spiegò, senza aggiungere che tutte quelle informazioni sarebbero state inutili se non fosse riuscito a riparare il computer astronavigatore.
Le mostrò il punto in cui i servomeccanismi avevano riparato lo squarcio nello scafo, nel locale attiguo (dalle piante della nave aveva imparato che quello era stato il salotto del capitano), locale che aveva poi adibito a suo alloggio personale. Non mise in funzione i servomeccanismi perché temeva che Jayna si spaventasse nel vedere quelle macchine muoversi silenziose sulle loro rotelle, agitando le braccia snodate in un lampeggiare di luci intermittenti.
Solo quando la visita fu terminata lei finalmente aprì la bocca esclamando: — È una meraviglia, Linc. Quello che hai fatto è meraviglioso… tu sei meraviglioso.
— Non hai più paura di me?
— No — rispose fissandolo coi dolci occhi azzurri. — Quando sono entrata avevo paura… ero venuta solo per portarti da mangiare. Non credevo davvero di avere il coraggio di entrare.
— Qui non c’è niente di cui aver paura.
Lei gli si avvicinò. — Adesso lo so. — Linc l’abbracciò istintivamente. Rimasero così a lungo, stretti l’uno all’altra, finché Linc non si sciolse con dolcezza dall’abbraccio.
— Sarà meglio che tu vada, prima che scoprano che sei venuta qui.
Jayna sollevò gli occhi, turbata. — Linc, lasciami rimanere qui con te.
— No — rispose lui con fermezza. — Non è possibile.
— Ti prego.
Come dotate di vita propria, le mani di Linc si tesero verso di lei, ma si fece forza e le ritrasse. — No — ripeté. — Devi tornare. Se rimani, Monel manderà le guardie a prenderti. Sarà la scusa che cerca per costringermi a smettere di lavorare.
— Hanno tutti paura di venire qui.
Come vorrei che restasse! Ma disse: — No, Jayna, non puoi. Torna e di’ pure che sei stata qui, se vuoi. Racconta quello che hai visto, quello che faccio. E di’ a tutti che ho intenzione di salvare loro la vita, che lo vogliano o no.
— Voglio aiutarti — insistette lei in tono supplichevole.
— Il miglior aiuto che puoi darmi è tornare a dire quello che hai visto.
Jayna fu lì lì per insistere, ma si trattenne e, senza aggiungere altro, abbassò lo sguardo e corse via.
Linc rimase immobile, come inchiodato al pavimento, guardandola uscire e allontanarsi di corsa per tornare dagli altri.
Idiota! si rimproverò. Lei non sa perché volevi che se ne andasse… e, dopo averci ripensato, ammise: E nemmeno io lo so.
Il tempo non esisteva più. Era solo un susseguirsi di lavoro interrotto dalle ore di riposo e dalle brevi pause dei pasti. Linc mandò un’infinità di volte i servomeccanismi nel mozzo. Imparò quanto gli era necessario sapere dagli schermi didattici del computer e molte cose le intuì da solo.
Jayna tornò altre volte, per brevi visite. Gli portava sempre del cibo, sebbene Linc la rassicurasse che non ne aveva bisogno perché i servomeccanismi gli portavano da mangiare in abbondanza dalla cucina automatica del mozzo. La ragazza non lo pregò più di farla restare, ma si limitò a velate allusioni, che Linc ignorò sistematicamente.