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Robert J. Sawyer

Rollback

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A Robyn Meta Herrington (1961–2004)

grande amica, grande scrittrice

PRIMA PARTE

1

Domenica 2 febbraio 2048

Ho avuto una vita felice. Sì.

Donald Halifax percorse con lo sguardo il soggiorno della modesta casetta che da sessant’anni condivideva con la moglie Sarah, e questa fu la considerazione che ne trasse. Certo, c’erano stati alti e bassi, e qualche volta i bassi erano stati simili ai gironi dell’inferno (l’agonia infinita di sua madre, la lotta di Sarah contro il tumore al seno, i momenti peggiori del ménage matrimoniale) ma tutto sommato, ecco, era stata una vita felice.

Tutto sommato.

Don scosse la testa, ma non perché fosse stato preso dallo sconforto. Era sempre stato pragmatico: si rendeva conto che, fino alla fine, non gli sarebbe rimasto altro da fare che tirare le somme. A ottantasette anni era così per tutti, o no?

Il soggiorno era piuttosto stretto. A metà di una delle pareti lunghe c’era un caminetto, affiancato da finestre con i vetri fotocromatici, ma Don non ricordava quando fosse stata l’ultima volta che lo avevano acceso. Troppa fatica, tra operazioni preliminari e pulizia a seguire.

Sulla mensola facevano bella mostra di sé alcune foto incorniciate, inclusa quella di loro due il giorno delle nozze nel lontano 1988. Sarah in abito bianco; lui con uno smoking che era nero, anche se in quell’immagine sbiadita sembrava grigio. Dalle altre foto sorridevano il figlio Carl, sia da bambino sia nel giorno della laurea, e la figlia Emily: un’istantanea a vent’anni, un ologramma a quaranta.

Poi, ancora, vari ologrammi, dedicati ai nipotini.

Non mancava qualche trofeo. Due piccoli, vinti da Don ai tornei di Scarabeo, e uno grande, conferito a Sarah dall’Unione astronomica internazionale. Siccome non ricordava più l’iscrizione su quest’ultimo, Don si avvicinò a passi lenti e lesse:

A SARAH HALIFAX

L’IDEA GENIALE È STATA SUA

1° MARZO 2010

Annuì. Era stato così fiero di lei, quel giorno... anche se, poi, la fama improvvisa aveva ben presto sconvolto l’esistenza di entrambi.

Sopra la mensola era montato uno schermo piatto ottimax; spento, indicava l’ora a caratteri digitali alti trenta centimetri, in modo che Sarah riuscisse a leggerli dal lato opposto della stanza. Infatti scherzava spesso sulla fortuna che aveva a non essere un astronomo ottico. In quel momento erano le 3.17 del pomeriggio; mentre Don osservava l’ora, si accesero i LED sulla sinistra dell’ultima cifra, indicando le 3.18. La festa era prevista per le tre, ma per ora non era arrivato nessuno, e Sarah era ancora al piano di sopra a prepararsi.

Don si ripromise di non fare il vecchietto guastafeste. Anche se irritarsi con i nipoti non gli piaceva, gli accadeva continuamente di farlo: tutta colpa di quei dolori costanti che gli rovinavano l’umore.

Sentì lo scatto della porta d’ingresso che si apriva. La casa aveva riconosciuto i dati biometrici dei ragazzi, così che, come al solito, quelli avevano fatto irruzione senza suonare il campanello. Dal soggiorno partivano una breve scala che scendeva all’atrio d’ingresso e una più lunga che portava alle camere da letto. Don raggiunse la base di quest’ultima e gridò: — Sarah! Sono arrivati!

Si diresse poi al lato opposto del soggiorno, ogni passo gli costava una lieve fitta. Non era ancora salito nessuno: si era a Toronto in febbraio e, con buona pace dell’effetto serra, bisognava ancora perdere del tempo a togliersi cappotti e stivali.

Ma, prima di raggiungere la scala, Don aveva già riconosciuto la miscellanea di voci. Era la truppa di Carl.

Osservandoli dall’alto della sua posizione, non poté fare a meno di sorridere.

Eccoli: suo figlio, sua nuora, il nipotino, la nipotina... la sua ricetta per l’immortalità. Carl era piegato su se stesso in una posizione che per Don sarebbe stata una tortura, impegnato a sfilarsi uno degli stivali. Dall’alto era ben visibile la sua calvizie in stato avanzato; un difettuccio che sarebbe costato un’inezia eliminare, ma di tutto si potevano accusare Don e il suo figlio cinquantaquattrenne, tranne di essere vanitosi.

Angela, la bionda consorte, aveva dieci anni in meno di lui. Era impegnata a togliere gli stivali a Cassie, seduta sull’unica sedia dell’atrio. Cassie, che aveva gli occhi liberi in quanto non forniva il minimo contributo all’operazione, sollevò lo sguardo e notò Don. Sulla sua faccetta rotonda si dipinse un sorriso da orecchio a orecchio: — Nonno!

Lui rimase a fissarla. Dopo che tutti i rivestimenti termici furono depositati nell’ingresso, il gruppetto salì in soggiorno. Angela diede un bacio sulla guancia a Don mentre sfilava verso la cucina tenendo in mano una confezione rettangolare che emanava profumo di torta. Dietro di lei arrivò Percy, dodici anni; quindi Cassie, che si era aiutata a percorrere i sei scalini sostenendosi con la punta delle dita al corrimano.

Don si chinò tra le proteste della propria schiena. Avrebbe voluto prendere e sollevare Cassie, ma era una missione impossibile. Quindi cambiò strategia, e si abbassò in modo che la piccola potesse gettargli le braccia al collo e stringere. Don resistette impavido al dolore che Cassie involontariamente gli procurò. Infine la bambina schizzò verso la madre in cucina. Seguendola con lo sguardo, Don vide allora Sarah che scendeva dal piano superiore, un passo sofferente alla volta, aggrappandosi al corrimano con tutt’e dieci le dita.

Sarah aveva appena raggiunto il fondo scala che la porta d’ingresso si riaprì ed entro Emily, l’altra figlia, divorziata e senza figli. Presto l’intera famiglia si ritrovò radunata in soggiorno. Grazie all’impianto cocleare l’udito di Don era più che soddisfacente, ma adesso il brusio nato dall’amalgamarsi delle voci non gli permetteva di seguire da cima a fondo nessun ragionamento. Comunque, il suo “sangue” era tutto lì riunito, e tanto bastava a renderlo felice. Anche se...

Anche se poteva essere l’ultima volta. Solo un mese e mezzo prima la famiglia si era radunata per le feste natalizie ad Ajax, il paese di Carl. Normalmente, la prossima rimpatriata avrebbe dovuto realizzarsi il Natale successivo, ma...

Ma Don non avrebbe potuto scommettere sull’eventualità di esserci ancora il Natale successivo.

Però accidentaccio, non era il momento di abbandonarsi a quelle fantasie morbose! Era un giorno di festa, per cui bisognava essere su di giri, e...

E all’improvviso in mano gli si materializzò un calice pieno di champagne.

Emily stava facendo il giro per il brindisi; Carl intanto passava ai bambini bicchieri di carta pieni di succo di frutta.

— Papà, mettiti vicino a mamma — disse Carl. Lui obbedì, raggiungendola sul lato opposto della stanza. Sarah non era più in piedi: non resisteva a lungo. Si era distesa sulla poltrona anatomica, che da parecchio tempo non veniva più reclinata, per quanto ai ragazzi piacesse un mucchio manovrare il meccanismo. Don si piazzò accanto alla moglie, osservando i suoi capelli sempre più bianchi e radi. Lei sollevò il collo più che poté per incontrare lo sguardo di lui, poi sorrise, aggiungendo nuove rughe alla pelle del volto.

— E ora attenzione tutti! — esclamò Carl, cui spettavano le incombenze del primogenito. Immediatamente le parole e le risa sfumarono nel silenzio. Carl mostrò il calice di champagne. — Propongo un brindisi. A mamma e papa per il loro sessantesimo anniversario di matrimonio!