Le sue ricerche erano spesso interrotte dal suono del campanello. Sul monitor appariva automaticamente l’immagine della persona alla porta: di solito si trattava di giornalisti. Alcuni di loro non si limitavano a mandare e-mail, chiamare al telefono o navigare su Internet.
I vicini che abitavano lì sul Betty Ann Drive quarant’anni prima avevano vissuto i suoi giorni di gloria, ma da allora le case avevano cambiato proprietà, anche più volte. Sarah si chiese che cosa avrebbero pensato i suoi nuovi vicini di quell’andirivieni di furgoni televisivi nel viale. Bé, se non altro non c’era nulla di cui vergognarsi, diversamente dalla famiglia del villino di fronte, dove continuavano a presentarsi auto della polizia. Finora Sarah aveva semplicemente ignorato i seccatori che bussavano alla sua porta, ma...
“Oh Dio!”
Ma non poteva ignorare questo.
Il volto comparso sul monitor non era umano.
— Don! — gridò, sentendosi la gola secca. — Don, vieni a vedere!
Il marito era andato in cucina a preparare il caffè. Decaffeinato, s’intende, il massimo che il dottor Bonhoff fosse disposto a concedere. Don si trascinò in soggiorno; indossava un cardigan grigioverde sopra una camicia rossa a maniche lunghe. — Che c’è?
Lei indicò il monitor — Mio... Dio... — mormorò — com’è arrivato fin qui?
Sullo schermo, dietro quella strana testa, s’intravedeva parte del viale; Carl aveva spalato la neve prima di andarsene, il giorno prima. C’era parcheggiata una lussuosa automobile verde. — Su quella, direi — rispose Don.
Il campanello suonò di nuovo. Pare che la creatura sulla soglia stesse cominciando a perdere la pazienza, ma Sarah aveva anche il sospetto che non intendesse demordere tanto presto.
— Lo faccio entrare? — domandò Don, sempre fissando l’immagine di quella testa rotonda, blu, con occhi senza palpebre.
— Oh... ma certo — rispose Sarah. — Direi di sì.
Osservò il marito mentre raggiungeva la scaletta che conduceva all’atrio d’ingresso, e quindi compiva il suo penoso pellegrinaggio verso il basso, un gradino alla volta. Lo seguì, rimanendo in piedi in cima alla scala: notò che uno dei nipotini aveva dimenticato lì la sciarpa multicolore. Quando Don arrivò alla porta, il campanello aveva già suonato per la terza volta, che era il numero massimo di squilli consecutivi permesso dall’impianto. Tolse il catenaccio e aprì la pesante porta di quercia verso l’interno, rivelando...
Qualcuno che Sarah non vedeva da settimane, in carne e ossa... per quanto “in carne e ossa” non fosse l’espressione adatta.
Un robot. In piedi sulla soglia, luccicava sotto i raggi del sole. Uno degli ultimi modelli, presumibilmente; più sofisticato e lucido di qualunque altro Sarah avesse mai visto.
— Buongiorno — il robot disse a Don, con una normale voce maschile. Era alto poco più di un metro e mezzo: abbastanza da potersela cavare nel mondo, ma non abbastanqza da intimidire. — La signora Sarah Halifax è in casa?
— Sono io — rispose lei dal pianerottolo del soggiorno.
Il robot sollevò lo sguardo verso di lei. Sarah immaginò che stesse esaminando i suoi lineamenti e la sua voce per accertarsi della sua identità.
— Buongiorno, professoressa Halifax — disse quindi. — Non essendo riuscito a contattarla al telefono, ho dovuto ricorrere a questo mezzo sostitutivo. C’è una persona che le farà piacere sentire. — Il robot sollevò il braccio destro; in mano (Sarah fece fatica a distinguerlo) teneva un palmare a valve.
— E chi sarà mai? — domandò.
Il robot inclinò lievemente la testa, come se stesse ascoltando qualcun altro; poi rispose: — Cody McGavin. — Il cuore di Sarah le balzò in petto. Avrebbe preferito trovarsi sulla scala, così avrebbe potuto aggrapparsi al corrimano. — Accetta la chiamata?
Anche Don si era voltato verso la moglie, con gli occhi spalancati e la mascella cascante.
— Sì... — disse lei.
La risposta era stata quasi impercettibile, ma il robot non sembrò avere difficoltà a decifrarla. — Permesso? — chiese.
Don annuì e si spostò di lato. Il robot attraversò la soglia. Con grande sorpresa di Sarah, ai piedi indossava solo delle galosce, che si sfilò con dei movimenti fluidi, esponendo due piedi metallici blu. Poi la macchina attraversò l’atrio, ticchettando con i talloni sul pavimento di legno consunto, e salì con agilità i primi due scalini; gli bastava quella distanza per porgere il palmare a Sarah. Lei lo prese.
— Lo apra — le consigliò l’automa.
Non appena lei lo ebbe fatto, il piccolo altoparlante emise uno squillo. Sarah si portò l’oggetto a un orecchio.
— Buongiorno, professoressa Halifax — disse una vivace voce femminile.
Sarah faceva fatica a distinguere le parole, avrebbe tanto voluto sapere come si regolava il volume. — Prego, resti in attesa. Le passerò il signor McGavin appena possibile.
Sarah rivolse al marito uno sguardo d’intesa. Aveva sempre detestato la gente che costringe il prossimo a fare anticamera, nella convinzione che il proprio tempo sia più prezioso di quello altrui. In questo caso, però, il tempo di attesa doveva corrispondere a un’esigenza effettiva. Certo, sulla Terra c’erano sicuramente persone ancora più indaffarate di McGavin, ma su due piedi non era facile elencarne qualcuna.
Come diceva sempre Sarah, il progetto SETI era la “Blanche Dubois” della ricerca scientifica: la sua sorte dipendeva dal buon cuore di chi capitava. In parte grazie al cofondatore di Microsoft, Paul Allen, che nel 2004 aveva fatto una donazione di tredici milioni e mezzo di dollari a beneficio di una batteria di radiotelescopi; e in parte grazie alle centinaia di migliaia di privati che avevano offerto al progetto SETI@home i tempi morti dei propri computer; la Ricerca dell’intelligenza extraterrestre era riuscita a sopravvivere decennio dopo decennio per la generosità di tutti coloro che ritenevano, primo, che non siamo soli e, secondo, che il fatto di non essere soli non è irrilevante.
Cody McGavin, all’età di quaranta anni, si era già arricchito con lo sviluppo di tecnologie robotiche; tutti i robot del pianeta erano muniti delle “reti sensoriali propriocettive” inventate da lui. Era nato nel 1985, e aveva sempre avuto la passione per l’astronomia, la fantascienza, i viaggi spaziali. La sua collezione di reperti dei programmi Apollo (interrotti ben prima che lui nascesse) era la più vasta esistente al mondo. Così, dopo la scomparsa di Paul Allen, era diventato di gran lunga il principale benefattore privato di SETI.
Nel tempo di attesa il palmare trasmetteva musica. Sarah riconobbe un brano di Bach. E capì lo scherzo sotteso, che sarebbe sfuggito a quasi tutti quelli della generazione attuale: molti, molti anni prima, ben prima che arrivasse il primo segnale da Sigma Draconis, in una discussione su quale messaggio radio i terrestri potessero inviare nello spazio, Carl Sagan aveva posto il veto su Bach, perché “quelli penserebbero: Quante arie che si danno!”.
La voce di Cody arrivò nel bel mezzo del concerto, con il suo inconfondibile accento bostoniano. — Buongiorno, professoressa Halifax. Perdoni se l’ho fatta aspettare.
La voce di lei tremava, ma non a causa dell’età. — Non c’è problema.
— Allora, alla fine lo hanno fatto, eh? — disse lui, tutto soddisfatto. — Hanno risposto!
— Pare di sì.
— Sapevo che sarebbe successo, lo sapevo! La chiacchierata galattica continua.
Sarah sorrise. — E adesso tocca a noi controbattere. Purché scopriamo come si fa a decrittare il messaggio. — Don stava risalendo i sei scalini verso il soggiorno.
Quando fu accanto a lei, Sarah spostò di lato il palmare in modo che anche lui potesse seguire la conversazione. Intanto il robot si era riposizionato immobile nell’atrio, vicino alla porta.