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Lei spalancò gli occhi. — Che... cosa?

— Perdonami.

— Ma perché!

Don abbassò gli occhi alla moquette spelacchiata. — Ho quasi raggiunto l’età massima per un essere umano, ed è ora che cominci a comportarmi da adulto.

— Ma, Don...

— Ho dei doveri nei confronti di Sarah. Ha bisogno di me.

Leonore aveva occhi lucidi. — Anch’io ho bisogno di te.

— Lo so — sussurrò lui. — Ma devo farlo.

La voce di Leonore tremava. — Ti prego, Don... No...

— Non posso darti ciò che chiedi. Ciò che meriti. Io... io avevo già preso un impegno.

— Ma stiamo così bene insieme, noi.

— Sì. Lo so. Ed è per questo che mi fa così male. Vorrei tanto che ci fosse un modo... Ma non c’è. — Deglutì a fatica. — Le stelle sono contro di noi.

Don tornò alla metropolitana a passo lento, tristemente, andando a sbattere contro i pedoni, incluso un robot, e scatenando un concerto di clacson quando attraversò Bloor Street senza guardare il semaforo.

Non aveva voglia di cambiare linea, come sarebbe stato costretto a fare se avesse scelto il tragitto più breve; perciò decise di dirigersi a sud, percorrendo parte di un lato della grande U e poi quasi tutto il lato opposto.

All’arrivo del treno alla fermata ci fu un pigia-pigia di gente che voleva salire, urtando controcorrente la marea di persone che uscivano. Don ricordava com’era quel posto quando lui era giovane: i passeggeri in salita attendevano in buon ordine, disponendosi ai lati delle porte e aspettando che tutti i passeggeri in uscita lasciassero le carrozze. Piano piano quelle piccole forme di civiltà, che avevano ottenuto alla città l’appellativo “la buona Toronto”, erano sparite; e gli altoparlanti si sgolassero pure a ripetere le regole.

La metro era affollata, ma lui riuscì a trovare un posto a sedere. Solo dopo che il treno fu ripartito gli venne in mente una cosa. Si era abituato a vedere giovanotti che gli offrivano il posto, in nome degli ultimi scampoli di civiltà, ed era pur sempre vero che Don aveva ottantotto anni, ma lì intorno c’erano passeggeri anziani che avevano un reale bisogno di sedersi. Si alzò, indicando il posto libero a una donna avvolta in un sari. Lei gli rivolse un sorriso colmo di gratitudine.

Si trovava nella prima carrozza. Alla fermata Union scese un sacco di gente, cosa che gli diede l’opportunità di raggiungere il parabrezza anteriore, accanto al posto del conducente occupato da un robot. Alcuni tratti della galleria erano perfettamente cilindrici, rischiarati a intervalli regolari da anelli di luce. L’effetto visivo gli ricordava quella vecchia serie TV, The Time Tunnel, che gli piaceva quanto Lost in Space per la bellezza della regia, anche se le storie erano veramente stupide.

Dopotutto, non è possibile tornare indietro nel tempo.

Non si può disfare il già fatto.

Non si può cambiare il passato.

Al massimo, si può andare più avanti a vedere il futuro.

La metropolitana si tuffò nell’oscurità per riportarlo a casa.

Don entrò, e rimase qualche istante immobile a fissare le piastrelle dell’atrio.

Era lì che Sarah era rimasta per ore, faccia a terra, ad attendere il suo ritorno. Salì pesantemente i sei scalini e raggiunse il soggiorno.

Sarah si trovava in piedi accanto al caminetto, girata di spalle, intenta aosservare o gli ologramrni dei nipoti o il suo vecchio trofeo. Si voltò, sorrise e si incamminò verso di lui. Don allargò d’istinto le braccia, lei vi si rifugiò e lui la strinse con dolcezza. Le braccia di Sarah, lungo la schiena di lui, sembravano rami di salice mossi dal vento. — Di nuovo buon compleanno — lo salutò.

Don guardò dietro la moglie. Sul grande schermo a muro, il display a caratteri cubitali indicava le 5.59... no, le 6 del pomeriggio. Terminato l’abbraccio, Sarah si diresse lentamente verso la cucina. Invece di precederla di corsa, Don le restò dietro, compiendo un passo ogni due di lei.

— Tu siediti — le disse, quando furono entrambi in cucina. I movimenti lenti e metodici di lei, nel cucinare o fare qualunque cosa, gli davano un antipatico senso di angoscia. E poi, lui mangiava il triplo di lei: toccavano a lui le incombenze domestiche. — Gunter! — disse ad alta voce, ma senza gridare, perché non era necessario. Il Mozo comparve quasi in tempo reale, e Don gli disse: — Ora io e te prepareremo la cena.

Sarah prese posto su una delle tre sedie di legno attorno al tavolo. Mentre “i due uomini di casa” gestivano gli spazi ristretti della cucina, prendendo pentole e padelle e recuperando le materie prime dal frigo, a un certo punto Don si sentì addosso gli occhi della moglie.

— Qualcosa che non va? — gli domandò lei.

Don non aveva quasi pronunciato verbo, e aveva fatto la massima attenzione a non far sbattere le stoviglie, ma Sarah lo conosceva da talmente tanto tempo da capire perfettamente il suo linguaggio somatico anche sotto quelle nuove spoglie.

Forse dal modo di tenere abbassata la testa, o quel mutismo sospetto, a parte le parole indispensabili per dare indicazioni a Gunter. Impossibile nasconderle il suo stato d’animo. Però lui provò lo stesso a negare, per quanto fosse futile: — Tutto a posto.

— È successo qualcosa di spiacevole in città?

— No. È solo che sono stanco. — Nel dirlo, Don era chino sul tagliere, ma sbirciava l’espressione di lei.

— C’è qualcosa che posso fare per te? — domandò Sarah.

— No — rispose lui. Quindi si concesse l’ultima menzogna della giornata: — Mi riprenderò in fretta.

36

Sarah si risvegliò di soprassalto. Il cuore le batteva a un ritmo che probabilmente non era salutare, alla sua età. Guardò la sveglia digitale: le tre e due minuti del mattino. Accanto a lei, Don russava piano.

Il pensiero che le aveva spezzato il sonno era così eccitante che fu tentata di svegliare il marito. Ma no, no. Era una faccenda lunga, e alla fine lui non sarebbe riuscito a riaddormentarsi.

Sarah dormiva dalla parte del letto verso la finestra. Un milione di anni fa, quando avevano scelto le rispettive metà del materasso, Don le aveva offerto quel lato per permetterle di osservare le stelle ogni volta che voleva. Comunque, mettersi dritta fu un trauma. Le giunture erano irrigidite, le faceva male la schiena, la gamba era ancora in via di guarigione. Alla fine però ci riuscì, scostando la barra di sicurezza e sopperendo alla debolezza fisica con la forza di volontà.

A passi lenti e strascicati raggiunse la porta, fece una pausa appoggiandosi allo stipite, poi si incamminò per il corridoio diretta allo studio.

Lo schermo del computer si animò non appena lei ebbe toccato il mouse wireless; si accese a bassa luminosità, adatta all’occhio in quel buio.

Pochi secondi e arrivò Gunter. Doveva essere al piano di sotto, ma aveva sentito i fruscii. — Tutto bene? — le domandò. Il volume della voce era appena percettibile.

Lei annuì. — Tutto benissimo. Ma c’è una cosa che voglio verificare subito.

Le erano sempre piaciuti i colpi di scena nella storia della Scienza, anche se erano solo leggende. Archimede che salta su dal bagno e si mette a correre nudo per Atene urlando “eureka!”. Newton che vede cadere una mela (ma Sarah preferiva l’ancora più improbabile versione secondo cui la mela gli era caduta in testa) e scopre la legge di gravità. August Kekule che si sveglia con in mente la struttura della molecola di benzene, dopo aver sognato un serpente che si morde la coda.

In tutta la sua vita Sarah aveva avuto una sola illuminazione di questo tipo: quella volta che, giocando a Scarabeo proprio qui, aveva capito il modo in cui andava incasellato il primo messaggio di Sigma Draconis.