— Esattamente! — disse il miliardario. — Non possiamo buttare giù la cornetta.
Ed è per questo che ti ho contattata, Sarah... posso darti del tu, o ti spiace?
— Per nulla. — Quando una persona più giovane le dava del tu, le regalava qualche anno di vita.
— Bene. Sarah, ho... diciamo, una proposta da farti.
Lei colse la palla al balzo. — Mio marito è qui che ascolta.
McGavin ridacchiò. — Una dichiarazione, allora?
— Sono sempre nei paraggi — intervenne Don.
— Hii hii hii — rise McGavin. — Allora chiamiamola “un’offerta”. Un’offerta che non puoi rifiutare.
Il che diede a Don l’opportunità di esibirsi nella sua famosa imitazione del Padrino: gonfiò le guance, si accigliò e scosse vigorosamente e silenziosamente la testa. Sarah soffocò una risata, mollandogli un buffetto su un braccio. — Sentiamo — disse al palmare.
— Preferirei parlarne vis-à-vis. Ti trovi a Toronto, Vero?
— Sì.
— Ti andrebbe di venire qui a Cambridge? Ti farei prelevare da uno dei miei aerei personali.
— Non... non mi va di viaggiare da sola, senza mio marito.
— Certo che no, certo che no. In fondo la cosa riguarda anche lui, in un certo senso. Quindi, verrete?
— Oh... mmm... vorremmo poterne discutere un attimo.
— Naturale.
Sarah coprì il microfono con una mano, e sollevò un sopracciglio in direzione di Don.
— Ai tempi del liceo — disse lui — ci fecero compilare un elenco delle venti cose che ci sarebbe piaciuto fare nella nostra vita. Ci stavo giusto ripensando qualche giorno fa. Una delle venti cose che non ho ancora realizzato è appunto “viaggiare su un jet privato”.
— Perfetto — disse lei. Poi al palmare: — Sicuro. Perché no?
— Assolutamente magnifico — commentò McGavin. — Domattina verrà a prendervi una limousine per accompagnarvi all’aeroporto di Trudeau, se per voi va bene.
Veramente, quello era l’aeroporto di Montreal (a Toronto è il Pearson), ma Sarah comprese che si trattava solo di un lapsus. — Ottimo, sì.
— Stupendo. Manderò un mio assistente a occuparsi di tutti i dettagli. Ci si vede domani a pranzo.
E riattaccò a suonare Bach.
4
Ironia della sorte, pensò Don: lui e Sarah avevano parlato a lungo del probabile fallimento del progetto SETI, prima che la realtà li costringesse a ricredersi. Un giorno... vediamo, erano entrambi intorno ai quarantacinque anni, quindi più o meno correva l’anno 2005... lui era tornato a casa e aveva trovato la moglie allungata sulla poltrona anatomica, con all’orecchio la cuffietta dell’iPod. Il che non significava che ascoltasse musica: Sarah batteva un dito a ritmo qualunque fosse la registrazione.
— Che senti di bello? — le aveva domandato.
— Una conferenza — aveva risposto lei, alzando istintivamente la voce.
— Ma no! — aveva gridato lui di rimando.
Lei si era staccata l’auricolare con un’aria imbarazzata. — Chiedo scusa — aveva detto, a volume normale. — È una conferenza di Jill alla Fondazione Adesso Esteso.
Don aveva spesso pensato che SETI era come Hollywood, con tutto il suo corredo di star: Alla Mecca del cinema, solo un outsider chiamava gli altri per cognome; lo stesso valeva per la cerchia di Sarah: “Frank” era Frank Drake, “Paul” stava per Paul Shuch, “Seth” era Seth Shostak, ovviamente Sarah Halifax diventava “Sarah”, e “Jill” era Jill Tarter.
— E adesso che fa? — domandò Don.
— La Fondazione Adesso Esteso — ripeté Sarah. — Un gruppo che si sforza di promuovere un pensiero a lungo termine, cioé pensare l’ adesso come un’intera epoca, piuttosto che come un punto nel tempo. Stanno costruendo un enorme orologio la cui lancetta scatta una volta all’anno, suona ogni secolo, e fa cucù ogni millennio.
— Vorrei avere io il mestiere di quel cucù — disse Don. — Dove sono i ragazzi? — Carl aveva circa dodici anni, Emily sei.
— Carl è di sotto a guardare la TV. E ho messo Emily in punizione per avere di nuovo imbrattato il muro.
Lui annuì. — Va bene. E che dice Jill? — Non l’aveva mai incontrata di persona; Sarah sì.
— Che SETI, per forza di cose, è un progetto a lungo termine. Ma non sta prendendo il problema di petto.
— Bé, se non lo fate lei o tu...
— Come?... Ah!
— Potevi arrivarci con calma. Sarò a casa tutta la settimana.
— Che culo!... Comunque, mi pare che non stia affrontando il punto, cioè che SETI deve diventare un progetto multigenerazionale, come la costruzione di una cattedrale. È un’eredità che dobbiamo lasciare ai nostri figli, e che loro affideranno a loro volta ai loro figli.
— Non siamo particolarmente portati ad attività di questo tipo — disse Don, appollaiandosi sull’ampio bracciolo imbottito della poltrona. — Voglio dire, anche l’ambiente è una cosa che lasceremo in eredità alla generazione di Carl ed Emily ma non abbiamo fatto granché contro l’effetto serra.
Sarah sospirò. — Lo so. Ma i protocolli di Kyoto sono meglio di niente.
— Una goccia d’acqua nell’oceano.
— Già.
— Sia come sia — disse Don — l’idea del... coso... dell’Adesso Esteso non fa per noi. È una teoria antidarwinista, e ne siamo immunizzati per natura.
Lei ne fu sorpresa. — Ma che dici?
— Il mese scorso a Quirk & Quark ci siamo occupati di selezione parentale. Mi ci è voluto un secolo a ripulire la registrazione. — Don era tecnico del suono alla CBC Radio. — C’era di nuovo Richard Dawkins in collegamento via satellite, e diceva che, in una situazione di competitività, si tende automaticamente a favorire il proprio figlio rispetto a quello di nostro fratello. Chiaro? Ed è ovvio: nostro figlio possiede metà del nostro DNA, mentre nostro nipote ne ha solo un quarto. Però, in caso di conflitto tra il figlio di nostro fratello e un cugino, si favorisce il primo dei due, perché un cugino possiede solo un ottavo del nostro DNA.
— È vero — rifletté lei. E intanto gli grattava amorevolmente la schiena.
Lui proseguì: — Un cugino secondo, poi, ha solo un trentaduesimo di DNA in comune, e la metà ancora un cugino di terzo grado. Bene, quand’è stata l’ultima volta che hai sentito parlare di qualcuno che ha offerto un rene per salvare un cugino di terzo grado? Si tratta di parenti di cui spesso non si sa nulla, e della cui sorte ci interessa ancor meno. Troppo poco materiale genetico in comune.
— Il mio genio della matematica! — scherzò Sarah. Le frazioni erano l’operazione più complicata a cui arrivasse Don.
— Man mano che passa il tempo — aggiunse lui — la percentuale condivisa di DNA continua a diminuire, come la coca tagliata. — Sorrise compiaciuto di quella similitudine, per quanto l’unica coca che avesse mai visto in vita sua era quella in una lattina rossa e bianca. — Nell’arco di sei generazioni i nostri discendenti risultano distanti da noi quanto un cugino terzo. E per accumulare sei generazioni bastano meno di due secoli.
— E invece io so i nomi dei miei cugini terzi: Helena, Dillon...
— Sei un caso speciale, ed è per questo che ti interessa SETI. Ma tutto il resto del mondo non fa investimenti genetici a lungo termine. L’evoluzione ci ha plasmati in modo da farci disinteressare di tutto ciò che non abbia conseguenze immediate, visto che dopo un po’ di tempo nessun parente stretto sarà più nei paraggi. Perciò, Jill starà evitando l’ostacolo proprio perché al grande pubblico gli “interminati spazi” non importano un accidente. Ma cavoli, non è stato Frank — altro personaggio che non aveva mai incontrato — a mandare un messaggio in un posto lontano migliaia di anni luce?