Il cast e l’equipaggio di Star Trek desiderano dedicare questo film agli uomini e alle donne dell’astronave Challenger: il loro spirito audace continuerà a vivere nel XXIII secolo e oltre...
E simultaneamente Sarah ripensò alla tragedia dello Shuttle del 2003, quando il Columbia si era disintegrato in fase di rientro.
Entrambi gli eventi l’avevano profondamente impressionata, per quanto potesse apparire ridicolo accostarli uno all’altro. Nel 2003, lei aveva detto a Don che avrebbe preferito far parte dell’equipaggio del Columbia, piuttosto che del Challenger, perché i primi erano morti a missione compiuta, nel viaggio di ritorno a casa. Erano vissuti abbastanza da veder realizzato il proprio sogno: erano andati in orbita, avevano fluttuato nella microgravità, e da lontano avevano goduto della vista stupenda, confusa, ipnotica e blu della Terra. Mentre gli astronauti del Challenger erano rimasti uccisi pochi minuti dopo la partenza, senza neppure aver raggiunto lo spazio.
Se tocca morire, meglio farlo dopo aver raggiunto lo scopo, anziché prima. Lei era vissuta abbastanza a lungo da assistere alla ricezione di un segnale alieno, e all’invio della risposta, e alla ricezione della controrisposta, e all’instaurarsi di un dialogo tra le stelle. Perciò era ormai nel suo “dopo”. Anche se le sarebbe piaciuto partecipare a tanti momenti del futuro, aveva già toccato la meta. E che meta!
Sollevò lo stilo per riprendere a scrivere.
Una lacrima cadde sul display ingrandendo il testo come se fosse una lente.
Come si faceva a morire nell’Era delle meraviglie e dei miracoli? Piccoli ictus e principi d’infarto erano diventati facili da pronosticare. Il cancro, lo si curava senza difficoltà, così come l’Alzheimer e la polmonite. Potevano pur sempre capitare degli incidenti domestici, ma con un Mozo al proprio servizio la loro percentuale diminuiva in modo netto.
Però, a un certo punto, il corpo si arrende. Il cuore si indebolisce, il sistema nervoso perde colpi, il catabolismo sopravanza l’anabolismo. Nulla di spettacolare come un aneurisma, né di doloroso come le coronarie che saltano, né di prolungato come una metastasi. Solo una lenta dissolvenza in nero.
Era ciò che stava succedendo a Sarah Halifax. Un granello di sabbia per volta.
Finché...
— Non mi sento molto bene — disse una mattina, con un filo di voce.
In un attimo Don fu da lei. Sarah era adagiata sul divano in soggiorno; ve l’aveva trasportata Gunter su una sedia, un’ora prima. Accorse anche il robot, che scansionò i parametri vitali della padrona di casa con i sensori incorporati.
— Che cosa ti senti? — le domandò Don.
Lei si sforzò di sorridere. — Mi sento vecchia. — Tacque, respirando a fatica.
Don le prese la mano, e si voltò verso Gunter.
— Chiamo immediatamente la dottoressa Bonhoff — disse lui, in un tono che tradiva la sua tristezza. Al termine dell’esistenza, tornano di moda le visite mediche a casa. Inutile occupare un letto d’ospedale.
Don le strinse affettuosamente la mano. — Ricorda il nostro accordo — disse lei, a voce bassa ma decisa. — Niente sforzi titanici. Non ha senso accanirsi a prolungare la vita.
— Non passerà la notte — disse la dottoressa Tanya Bonhoff dopo essere rimasta accanto a Sarah per alcune ore. Era una quaramenne dalle spalle larghe e capelli biondi a spazzola. Lei e Don si erano allontanati dalla camera da letto; adesso erano nello studio, dove il computer era spento.
Lui sentì una stretta alla bocca dello stomaco. A Sarah erano stati promessi altri sessanta, altri ottanta anni di vita. E adesso...
Don afferrò lo schienale della sedia, vi si lasciò andare.
E adesso, a sua moglie non restavano neppure sei ore.
— Le ho dato degli analgesici, ma rimarrà lucida fino alla fine — disse il medico.
— La ringrazio.
— Penso che dovrebbe avvertire i suoi figli — aggiunse lei, in tono premuroso.
Don tornò in camera da letto. Carl era in viaggio d’affari a San Francisco: disse che avrebbe preso il primo volo, ma, per bene che andasse, non avrebbe potuto arrivare a Toronto prima del mattino seguente. Anche Emily era fuori città, ad aiutare un’amica a sistemare il cottage per l’inverno; adesso stava correndo a casa, ma le ci sarebbero volute almeno quattro ore.
Sarah era distesa al centro del letto, con la testa sollevata da due cuscini. Don sedette sul bordo del materasso e le prese la mano. La pelle liscia di lui contro quella rugosa e cadente di lei.
— Ehi... — mormorò Don.
Lei sollevò di qualche millimetro la testa, emettendo un sussurro che doveva echeggiare la stessa parola.
Rimasero in silenzio per un po’. Infine Sarah disse: — Ce la siamo cavata benino, no?
— Meglio di così! — disse Don. — Due figli in gamba. Sei stata una madre meravigliosa. — Le strinse la mano, con leggerezza. Il suo braccio sembrava così fragile, con i segni delle iniezioni. — E una moglie meravigliosa.
Lei fece un minimo sorriso, ma era il massimo che potesse. — E tu, un marito mera...
Don non voleva sentirselo dire. La interruppe, sussurrando: — Lo sa il cielo. — Ma, in fondo, anche questo alludeva al loro matrimonio.
— Quando io sarò... — Sarah fece una pausa. — Quando non ci sarò più, voglio che tu non sia troppo triste.
— Non credo di riuscirci — disse lui, in un soffio.
Lei annuì appena. — Però, tu hai un dono che nessun altro di noi possiede. — Non c’era risentimento nella sua voce. — Sei stato sposato per sessant’armi, ma ti resta un tempo ancora più lungo da vivere, dopo... dopo aver perso la tua consorte.
Un lusso che finora non si era concesso nessuno, dopo le nozze di diamante.
— Non mi sono bastati sei decenni con te — disse lui, con la voce che si strozzava. — Non mi sarebbero bastati i secoli.
— Lo so — disse Sarah, ruotando il polso per poter essere lei a stringere la mano a lui. A consolarlo. — Ma siamo stati fortunati lo stesso ad aver trascorso insieme tutto questo tempo. Bill e Pam non hanno avuto questo dono.
Don non aveva mai creduto alle fandonie dello spiritismo, ma in quell’attimo gli parve che il fantasma del fratello aleggiasse nella stanza. Forse era venuto ad accompagnare la cognata nella luce eterna.
Sarah si sforzò di aggiungere ancora qualcosa: — La sorte è stata più benigna con noi che con tanti altri.
Don ci pensò. Forse, nonostante tutto, era così. Come lui stesso aveva pensato il giorno del sessantesimo anniversario, mentre attendeva l’arrivo dei figli: “Ho avuto una vita felice”. Nulla di tutto ciò che era avvenuto in seguito avrebbe potuto cancellare quella verità.
Sarah restò in silenzio a osservarlo. Poi scosse lievemente la testa. — Sei proprio identico a quando ti ho conosciuto.
Lui si strinse un po’ nelle spalle. — All’epoca ero un ciccione.
— Ma il tuo... — cercò un termine — ...calore era lo stesso. E tutto il resto. E...
— fece una smorfia di dolore. Una fitta contro cui non erano serviti gli analgesici.
— Sarah!
— Sto... — si fermò prima di completare la bugia con un “bene”. — Lo so che è stato duro per te, questo ultimo anno. — Tacque di nuovo; era esausta. Don non sapeva come riempire quel vuoto. Attese che lei riguadagnasse abbastanza forze per proseguire: — Lo so che... che era pesante stare con una vecchia, per te così giovane.
Lo stomaco di Don era rigido come un blocco di legno. — Perdonami — sussurrò.
Non capì se Sarah lo avesse udito, ma lei sorrise. — Ricordati di me, di tanto in tanto. Non vorrei... — emise un rantolo, che però esprimeva più tristezza che dolore. — Non vorrei che l’unico a pensare a me fosse il mio amico di Sigma Draconis, e tra diciotto anni.