— Te lo prometto — disse lui. — Penserò a te ogni giorno. Per sempre.
Lei abbozzò un altro sorriso. — Nessuno vive per sempre... però tu potresti andarci vicino.
La sua mano si distese, immobile.
Don la scosse, delicatamente. — Sarah!
Nessuna risposta.
42
Il mattino dopo, Don ed Emily si misero a fare le telefonate di rito a parenti e amici. Emily era arrivata verso mezzanotte, e aveva dormito nella sua ex cameretta, mentre il padre si era adattato al divano. La quindicesima o ventesima chiamata di Don fu a McGavin; saputo il motivo, la signora Hashimoto lo mise in contatto diretto con il boss.
— Ehilà, Don — disse McGavin. — Che succede?
Lui non fece preamboli: — Questa notte è morta Sarah.
— Dio... Condoglianze, Don.
— I funerali si terranno fra tre giorni qui a Toronto.
— Me lo segno... No, accidenti, dovrò essere in Borneo. Mi spiace tanto.
— Non importa.
— Io... mmm... — disse McGavin — detesto toccare questo tasto, date le circostanze, ma tu sei a conoscenza della chiave di decrittazione, vero?
— Sì.
— Bene, bene. Forse è meglio che tu me ne faccia avere una copia. Per sicurezza.
— Il dato è al sicuro, non si preoccupi.
— È solo che...
— Ora mi scusi — disse Don — ma ho ancora numerose chiamate da fare. Però mi è sembrato giusto avvertirla tra i primi.
— Lo apprezzo molto, Don. Ancora condoglianze.
Quando era arrivata una telefonata dalla Robotics per informarlo che il Mozo andava sottoposto a una revisione di routine, il primo impulso di Don era stato di mandarli al diavolo. Poi però aveva detto: — Va bene. Quando sarete qui?
— Quando fa più comodo a lei — aveva risposto una voce maschile.
— Non sono interventi da programmare con settimane di anticipo?
L’uomo all’altro capo del telefono aveva ridacchiato. — Non quando si tratta di clienti sull’Albo d’oro.
Il furgoncino blu arrivò alle undici spaccate, come richiesto da Don. Un piccoletto di colore, azzimato e di mezza età, suonò alla porta portando con sé una valigetta metallica. — Il signor Halifax? — domandò.
— In persona.
— Sono Albert. Mi perdoni il disturbo, ma questi controlli periodici sono fondamentali. Capisce: meglio individuare subito un piccolo guasto, che aspettare che faccia grossi danni.
— Ovvio. Prego, entri pure.
— E il Mozo dov’è? — domandò Albert.
— Di sopra, penso. — Don accompagnò il tecnico in soggiorno, poi gridò: — Gunter!!
Di solito, il robot compariva alla velocità della luce. Un Battista iperteso.
Stavolta no, e il padrone di casa si spazientì: — Gunter!!
Niente. Don rivolse uno sguardo imbarazzato all’uomo della Robotics, come si fa quando i bambini si comportano male in presenza di ospiti. — Chiedo scusa.
— Che sia in giardino?
— È possibile, ma sapeva del suo arrivo.
Don salì al piano delle camere, seguito da Albert. Guardarono nello studio, nella stanza da letto, nel bagno principale e in quello di servizio, nella ex cameretta di Emily. Di Gunter, nessun segno. Ridiscesero per controllare in cucina e in sala da pranzo. Niente. Quindi andarono nel seminterrato, e...
— Oh Dio! — esclamò Don., chinandosi sul Mozo, che era buttato sul pavimento a faccia in giù.
Anche il tecnico si inginocchiò accanto al robot. — Batteria disattivata — disse.
— Non lo spegnevamo mai — disse Don. — Magari è per questo.
— Dopo meno di un anno? Lo escluderei.
Albert ruotò il Mozo sulla schiena, e sibilò: — Merda. — Al centro del torace metallico si notava un piccolo pannello aperto. Albert prese una mini-torcia dal taschino e ne illuminò l’interno. — Maledizione... maledizione...
— Cos’è successo? — chiese Don. — Che problema c’è? — Sbirciò sotto il pannello. — Che cosa sono questi comandi?
— La memoria principale. — Fece scivolare una mano verso l’ombelico di Gunter e premette il pulsante di on\off.
— Buongiorno — disse il Mozo, mentre la bocca si rianimava. — Do you speak English? Hola, habla Español? Bonjour, parlez-vous français? Konichi-wa, nihongo-o hanashimasu-ka?
— Cosa sta succedendo? — ringhiò Don.
— Inglese — disse Albert.
— Buongiorno — ripeté il Mozo. — Questa è la prima volta che vengo attivato da quando sono uscito dalla fabbrica, perciò mi scuso, ma dovrò chiedervi alcune informazioni. Primo: da chi riceverò ordini?
— Sta dando i numeri? — chiese Don. — Ma quale “prima volta”!
— Si è resettato — disse Albert, annuendo con aria pensierosa.
— Che?
— Ha azzerato la memoria, ed è tornato alle condizioni di default.
— Ma... perché?
— Non lo so. Non avevo mai visto un caso del genere.
— Gunter — disse Don, piantando gli occhi in quelli vitrei e rotondi del robot.
— Chi di voi due è Gunter? — domandò il Mozo.
— Sei tu. Questo è il tuo nome.
— Scritto: gi, u, enne, ti, acca, e, erre?
Don si sentiva male. — Non... non tornerà più, vero?
Il tecnico scosse la testa.
— Non c’è nessun modo di recuperare la memoria?
— No, sono spiacente. Ha spazzato via tutto.
— Ma se... — E in quel momento, Don capì. Ci aveva messo più tempo di Gunter, ma alla fine c’era arrivato anche lui. L’unica... l’unica persona presente quando Sarah aveva decrittato il messaggio, era il Mozo. Quel tecnico non era affatto venuto a fare una revisione periodica: era venuto a ficcanasare nella memoria di Gunter, per rubare la chiave e darla a McGavin. Il quale voleva avere il controllo sull’intera operazione, non era così? Voleva essere l’unico creatore dei Draghetti, e che Don si levasse dalle palle.
— Fuori di qui — disse Don ad Albert.
— Come, prego?
— Fuori-da-questa-casa!!
— Signor Halifax, io non...
— Crede che non abbia capito che cosa ci fa lei qui? Fuori!
— Sinceramente, signor Halifax...
— Subito!
Albert si spaventò. Don aveva biologicamente vent’anni in meno di lui, ed era di quindici centimetri più alto. Acciuffò la valigetta metallica e risalì di corsa verso l’uscita. Mentre Don offriva a Gunter una mano per aiutarlo a rialzarsi.
Gli antefatti non erano difficili da ricostruire. Dopo che Don aveva chiamato McGavin per informarlo del decesso di Sarah, il miliardario aveva ripensato alla sua ultima conversazione con lei, e si era ricordato dell’orgoglio di Gunter per essere stato presente al grande momento. Quindi era probabile che il Mozo avesse memorizzato la chiave di decrittazione.
Don era livido di rabbia, mentre componeva un numero ormai noto, e una nota voce rispondeva: — McGavin Robotics. Ufficio del presidente.
— Signora Hashimoto, buongiorno. Sono Donald Halifax. Desidero parlare al signor McGavin.
— Sono spiacente, ma al momento non è raggiungibile.
Don tenne sotto controllo la rabbia. — Prenda nota della chiamata, e gli dica che ho necessità di parlargli entro oggi.
— Non posso sapere quando il signor McGavin risponderà a una chiamata, e...
— Gli dica che l’ho cercato. Sara sufficiente.
Il telefono squillò due ore dopo.
— Ciao, Don. La signora Hashimoto mi ha informato che mi cercavi...