No. A Sarah, e basta. Perché solo lei doveva dominare i suoi pensieri. Per quanto...
Per quanto Leonore doveva senz’altro aver saputo della morte di lei. Nelle prime settimane dopo il lutto, Don si era atteso qualche messaggio da Leonore. In un’epoca precedente lei avrebbe potuto inviare un telegramma formale, senza che questo lo invitasse a risponderle; ma oggi le uniche vie sarebbero state una telefonata, che implicava di impegnarsi in una conversazione; o un’e-mail, a cui sarebbe venuto naturale replicare.
Passò un mese, poi un altro, e Don concluse che Leonore non intendeva ripristinare i contatti. Del resto, che cosa avrebbe potuto dirgli? Che era dispiaciuta della notizia? Senza che, tra le righe, lui interpretasse: “Sono dispiaciuta che non sia morta prima”? Mica per cattiveria, ma perché era stata solo l’esistenza di Sarah a dividerli.
Ogni tanto Don faceva una ricerca in Rete su “Sarah Halifax”. Venivano fuori una montagna di pagine, quasi tutte datate, ma che davano la pallida impressione che lei fosse ancora viva.
Sul proprio nome, non curiosava più sul Web. Come aveva detto Randy Trenholm, fioccavano i blog sul suo Rollback, e la cosa lo stomacava. Giusto qualche volta inseriva il nome di Leonore per vedere se saltava fuori qualcosa.
Saltò fuori che aveva terminato il master a Toronto e, come sognava, si era trasferita in Nuova Zelanda per proseguire gli studi.
Don si mise a cercare tutte le informazioni possibili su di lei. Il sito dell’Università di Canterbury, pubblicazioni specialistiche di cui era co-autrice, i suoi occasionali post su newsgroup di stampo politico, immagini in video-conferenza da Tokyo. Riguardò quella clip un milione di volte.
Sapeva che non avrebbe mai colmato la perdita di Sarah. Ma la vita doveva proseguire, e presto anzi sarebbe cambiata in modi inimmaginabili. McGavin gli aveva rivelato che l’utero artificiale sarebbe stato pronto nell’arco di poche settimane. La gestazione, secondo i dati inviati dai Draconiani, sarebbe durata sette mesi.
Era un anno e mezzo che Leonore era uscita dalla sua vita. Era troppo, sperare che fosse ancora libera. Anche in quel caso, sicuramente preferiva mettere tra parentesi quell’“episodio”, così lo aveva chiamato, un uomo che si era rivelato essere, parola odiata, un ottuagenario.
E però...
E però, nell’ultimo periodo trascorso insieme, lei sembrava essersi riconciliata con la storia di lui, accettando la sua doppia età, quel suo corpo giovanile con un’anima un po’ meno giovanile. Trovare un’altra donna capace di tanto, nonostante l’apertura mentale sbandierata da tutti, sarebbe stato un miracolo.
D’accordo, era l’epoca dei miracoli scientifici, ma a tutto c’era un limite.
Ovviamente, un uomo con la testa sulle spalle avrebbe cercato di contattare Leonore per telefono o per e-mail. Un uomo con la testa sulle spalle non avrebbe attraversato in aereo mezzo globo terrestre illudendosi di venire accolto a braccia aperte. Solo che lui non lo era. Lui era uno “stupidone”, come avevano rimarcato entrambe le donne di cui si era innamorato.
E fu così che...
E fu così che si ritrovò su un aereo per la Nuova Zelanda. Mentre allacciava le cinture di sicurezza, si rese conto di avere un vantaggio sui Draconiani: loro spedivano i segnali al buio e, in assenza di risposta, per anni e anni non avrebbero potuto sapere se i messaggi fossero arrivati o meno a destinazione. Lui, se non altro, avrebbe visto Leonore in faccia. E non aveva bisogno di altro: l’espressione di lei sarebbe stato un messaggio immediatamente comprensibile, senza tante decrittazioni.
Con tutto ciò, non vedeva l’ora di sapere il verdetto...
Il posto di Don era vicino all’oblò. Molto pittoresco su un volo nazionale; ma, su uno intercontinentale, quando uno voleva sgranchirsi le gambe era costretto a infastidire altri due passeggeri. Quello più vicino a Don, sul sedile centrale, era un uomo di almeno settantacinque anni. E Don ricordava fin troppo bene che cosa significasse cercare di alzarsi in uno spazio ristretto, a quell’età, per cui resistette il più a lungo possibile intrappolato al proprio posto, un po’ osservando le infinite distese di nubi dall’alto, un po’ guardando la TV sul monitor.
Dopo circa quattro ore, l’anziano vicino attaccò bottone. — Piacere, io mi chiamo Roger. — Aveva un forte accento australiano: doveva essere di ritorno verso casa, visto che l’aereo, dopo lo scalo ad Auckland (dove Don avrebbe cambiato volo per Christchurch)., avrebbe fatto rotta per Melbourne.
— Come mai era a Toronto? — domandò Don, dopo che Roger ebbe confermato le proprie origini australiane.
— Veramente ero a Huntsville. Ha presente?
— Il paradiso dei cottage.
— Centro! Ci vive mia figlia, che gestisce un bed&bleakfast. Ha appena avuto una bambina, quindi non potevo mancare.
Don sorrise. — I nipotini sono un raggio di sole.
Roger lo guardò con aria incuriosita, ma poi annuì: — Garantito.
— Era mai stato in Canada prima d’ora?
— Questa era la quarta volta, ma... — Sul volto, che era beato al pensiero della nipotina, si disegnò un’ombra. Don pensò che stesse per aggiungere: “Ma forse sarà l’ultima”; invece Roger disse: — Era la prima volta che ci venivo da solo.
L’anno scorso ho perso mia moglie.
Don sentì una fitta al cuore. — Oh... Condoglianze.
— Grazie. Meravigliosa, ecco cos’era la mia Kelly.
— Si vede. Per quanto tempo siete stati sposati?
— Cinquant’anni. Cinquant’anni e una settimana, per la precisione. Come se lei avesse tenuto duro fino al giro di boa.
Don tacque.
— Mi manca da impazzire — continuò Roger — Ogni giorno.
Don restò ad ascoltare in silenzio mentre il vicino rievocava gli anni stupendi trascorsi con Kelly tenendosi nella strozza frasi come: “Lo so”, “Anche per me”, “Proprio come me e Sarah“.
Alla fine, Roger gli rivolse uno sguardo imbarazzato. — Mi scusi, mi sono lasciato trasportare dai ricordi. Sono un vecchio rompipalle.
— Per niente — disse Don.
Roger sorrise. Aveva una faccia tonda con pochi capelli; e la pelle cotta di uno che si era crogiolato a lungo al sole. — Lei è un giovanotto davvero gentile, a sopportare tutte le mie chiacchiere.
Don soppresse un sorrisetto. — Piacere mio.
— Mi racconti un po’ di lei. Che ci viene a fare nel regno di Oz... tralia?
— Ah, no, proseguo per la Nuova Zelanda.
— Isola del Nord o del Sud?
— Sud.
— Bé, sono entrambe incantevoli. A parte le pecore.
Stavolta Don sorrise apertamente. Ma non poteva raccontare di esserci stato sessant’anni fa, e non conosceva la situazione attuale, quindi rispose: — Sì, me l’hanno detto.
— Cosa la porta nella terra dei kiwi? Viaggio d’affari o di piacere?
— Vuole la verità? Sto rincorrendo una ragazza.
Cogliendolo di sorpresa, Roger gli affibbiò una pacca sul ginocchio. — Beato te, ragazzo mio! Beato te!
— Forse, o forse no. Abbiamo rotto un annetto fa, e lei si è trasferita a Christchurch per motivi di studio. Mi è mancata oltre il dicibile.
— Ma la ragazzuola sa che lei sta arrivando, immagino.
Don scosse la testa, preparandosi a essere bollato come un idiota.
Roger sollevò un sopracciglio. — Accetterebbe un consiglio da un vecchio?