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— Sono i consigli migliori.

Roger fu preso in contropiede: si attendeva una risposta diversa. Quindi annuì con aria esperta. — Sta facendo la cosa giusta, ragazzo mio. Le uniche cose di cui mi pento, in tutta la mia vita, sono le follie che non ho fatto.

Don sorrise. — Lei è una persona molto saggia.

Roger ridacchiò. — Viva abbastanza a lungo, e lo diventerà anche lei.

44

Dopo aver cambiato volo, finalmente, alle cinque del mattino ora locale, Don fu all’aeroporto di Christchurch. Detestava dover pagare un albergo senza passarci la notte, ma l’alternativa sarebbe stata presentarsi a Leonore in uno stato pietoso, e l’impresa era già abbastanza picaresca così.

Aveva prenotato una camera nell’hotel più economico che avesse scovato on-line; ci andò in taxi. La camera era piccola in base agli standard nordamericani, ma aveva un balconcino. Dopo essersi rinfrescato, Don si accomodò all’esterno; era estate, ma l’aria frizzante del mattino gli congelava il fiato.

Quasi tutti gli edifici intorno avevano le luci spente. Don tornò in camera e chiuse tutti gli interruttori, per abituare gli occhi alla semi-oscurità, poi tornò sul balcone. Non si può rimanere sposati con un’astronoma per sei decenni senza acquisire un minimo di familiarità con le costellazioni, anche se in quell’emisfero gli risultarono quasi tutte sconosciute. Però individuò due stelle la cui brillantezza superava tutte le altre: Alpha Centauri e Beta Centauri, le uniche di cui si ricordasse da quel famoso viaggio di una vita fa. Oltre a...

Esaminò il cielo da un estremo all’altro. Eccole, inconcepibilmente enormi: le Nubi di Magellano, due graffiti bianchi sul buio. Restò a fissarle, rabbrividendo.

Il sole compariva, lento, all’orizzonte che man mano diventava rosaceo, e...

E all’improvviso esplose una cacofonia di canti di uccelli, completamente diversi da tutto ciò che si poteva sentire in Canada. Come trovarsi su un pianeta alieno.

Don tornò dentro, puntò la sveglia per cinque ore dopo e si distese, a occhi chiusi, chiedendosi che cosa gli avrebbe portato il nuovo giorno.

Appena si svegliò, controllò la posta elettronica sul palmare. C’era il rapporto giornaliero da McGavin: tutto procedeva bene nella realizzazione dell’utero artificiale. Nel frattempo erano state prodotte le sequenze di DNA alieno, suddividendole tra quattro laboratori specializzati e poi assemblandole con la stessa tecnica utilizzata mezzo secolo prima per il Progetto Genoma. “Presto” concludeva McGavin “tutto okay per cominciare a far sviluppare embrioni.”

Don aveva dapprima pianificato di incrociare Leonore mentre usciva o rientrava a casa (non era stato difficile scoprire dove abitava). Ma avrebbe avuto tutta l’aria di un agguato, facendo magari una pessima impressione sull’interessata. Inoltre, se lei conviveva con qualcuno, meglio evitare uno scontro con un fidanzato geloso.

Quindi optò per sbucarle di fronte all’università. Una breve ricerca sul palmare lo aveva informato sugli orari dei colloqui della dottoranda in Astronomia. Prima di lasciare l’hotel, Don prese un po’ di denaro in contanti dal bancomat interno; anche le predizioni sulla scomparsa della Cartamoneta per ora non si erano avverate, perlopiù per motivi di privacy. Le banconote erano nuove di zecca, ma mostravano un ritratto di re William molto più giovane di quello che compariva su quelle canadesi; come se Sua Altezza si fosse concesso un piccolo Rollback anche lui.

Il taxista meccanico lo lasciò all’entrata del campus, dove lo accolse l’insegna:

NAU MAI, HAERE MAI KI TE WHARE WĀNANGA O WAITAHA

Di nuovo un testo alieno... Però sul lato opposto della strada sorgeva una Stele di Rosetta con la traduzione:

BENVENUTI ALL’UNIVERSITÁ DI CANTERBURY

Il campus era attraversato da un fiumiciattolo. Don lo costeggiò fino all’edificio in cui, come gli aveva mostrato un passante, si trovava la facoltà di Astronomia.

Una costruzione recente, in mattoni rossi, semiaffondata dentro una collina. Una volta all’intemo, cercò l’aula che gli occorreva, anche se la numerazione era piuttosto lambiccata.

Alla fine s’imbatté nella segreteria di Astronomia. Infilò dentro la testa: alla scrivania sedeva un maori sulla trentina, con il volto coperto da tatuaggi labirintici.

— Buongiorno — disse Don. — Per favore, potrebbe indicarmi l’aula 42-214B?

— Cerca Leonore Darby? — domandò l’uomo.

A Don andò in subbuglio l’intestino. — Ah... sì.

Lui sorrise. — Lo immaginavo, ha un accento canadese. Allora: prosegua per il corridoio, poi svolti a destra in quello successivo. Troverà l’aula alla sua sinistra.

Mancavano venti minuti alla fine del colloquio. Rin graziò il segretario, fece una sosta al bagno, verificò di non avere rimasugli tra i denti, si pettinò, si lisciò i vestiti. Poi si diresse alla 42-214B. La porta era chiusa, ma munita di finestrella: Don sbirciò all’interno.

Ed ebbe un sussulto. Leonore era lì, in fondo. Come a sottolineare che tante cose erano cambiate, si era accorciata di parecchio i capelli rossi. Appariva anche “invecchiata”, il che a quell’età era sinonimo di maturazione, non di decadenza.

Era una piccola aula per conferenze, con seggiole in pendio di fronte a una scrivania. Leonore però non se ne stava seduta rigida, ma recitava la lezione in piedi sullo spiazzo centrale, in atteggiamento più sciolto. Di fronte a lei erano sedute una decina di persone, di cui Don vedeva le nuche. Alcuni avevano i capelli grigi; dovevano essere membri del corpo accademico. Leonore usava una penna laser per indicare vari punti su un complesso grafico proiettato a schermo. Lui non poteva sentire le parole di lei, in compenso ne distingueval’inconfondibile cadenza squillante.

Don sedette sul pavimento, all’esterno, in attesa che la sessione terminasse.

Quando la porta si aprì, ebbe un picco adrenalinico, ma era solo uno che andava al bagno.

Altre aule, lungo lo stesso corridoio, presero a svuotarsi; solo quella di Leonore rimaneva chiusa, mettendogli addosso un’ansia da panico. Don si rialzò, spazzolandosi con le mani il fondo dei pantaloni. Stava per curiosare ancora attraverso la finestrella, quando la porta si spalancò. Lui si fece da parte, come prescriveva l’antica abitudine alla metropolitana di Toronto.

Passata la calca, Don si sporse dentro l’aula. Leonore, di schiena, parlava con l’ultima persona che non se n’era ancora andata, un ragazzo smilzo. Finalmente anche lui risalì per la scalinata e uscì. Leonore restò alla scrivania a sistemare qualcosa.

Don inspirò profondamente, a lungo, nella speranza che questo lo rilassasse un po’, quindi entrò. Era sceso di appena quattro gradini, quando Leonore sollevò gli occhi, e...

E li spalancò, quasi un cerchio perfetto, mentre le labbra le si aprivano senza emettere un suono. Lui continuò a scendere, tremando peggio di quando aveva ottant’anni.

Lei sembrava ancora non credere ai propri occhi, come se lo sconosciuto fosse un sosia del ragazzo che conosceva. D’altra parte, era qualche tempo che non si vedevano, e magari lo ricordava male, e non era lui, e...

— Don? — disse.

Lui sorrise, ma con gli angoli della bocca che vibravano. — Ciao, Leonore.

— Don! — Quasi gridò il suo nome, sorridendo da un orecchio all’altro.

Lui scese di corsa gli ultimi scalini, a due per volta, e all’improvviso furono uno tra le braccia dell’altra. Don impazziva dal desiderio di baciarla, ma il solo fatto che lo avesse accolto come un vecchio amico non lo autorizzava a farlo.

Dopo un tempo che a lui parve troppo breve, lei si sciolse dall’abbraccio.

Leonore lo esaminò rapidamente da cima a fondo, poi piantò le pupille nelle sue.