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— Forse sì — disse lui. — Forse. Sono solo... solo...

Lei gli accarezzò la mano, sul legno levigato del tavolo. — Un po’ spaventato?

Non era un’accusa, era condivisione. — Immagino di sì. Un pochino.

— Anch’io — disse lei. — Ma supereremo insieme le nostre paure.

Lui sollevò un sopracciglio. — Sicura di potermi sopportare per qualche altro decennio?

— Non lo farei, se non ci fosse questo.

Ringiovanire. Era un pensiero inebriante. E, a essere sinceri, anche agghiacciante. Ma anche e soprattutto elettrizzante. Un aspetto sgradevole, per Don, era di dover ricevere la terapia in elemosina: se se la fosse potuta anche solo lontanamente permettere, l’avrebbe apprezzata molto di più. Ma, anche a vendere casa, azioni, beni e tutto, non avrebbero raggranellato neppure la prima rata del trattamento per uno dei due. Cavoli, perfino McGavin aveva dovuto rifletterci, prima di raddoppiare la spesa!

Don trovava stupida l’idea che Sarah fosse l’unica persona in grado di comunicare con gli alieni. In compenso, il processo di ringiovanimento era irreversibile; per cui, se un bel giorno fosse risultato che Sarah non era un elemento chiave, loro due avrebbero potuto godersi lo stesso i decenni extra.

— Avremo bisogno di guadagnarci da vivere — riprese lui. — Capisci, non avevamo preventivato mezzo secolo di pensione.

— Hai ragione. Chiederò a McGavin di aiutarmi a riottenere una cattedra all’università, o qualche altra fonte di reddito.

— Non è tutto. Che penseranno i nostri figli? Sembreremo più giovani di loro.

— Vero anche questo. Si ritroveranno diseredati, per di più.

— Non perderanno granché — replicò Sarah con un sorriso. — Sono sicura che, invece, saranno felici per noi.

Tornò il cameriere, con un velo di esasperazione negli occhi. — I signori hanno scelto?

Don osservò Sarah. L’aveva sempre trovata bella. Lo era in quel momento, così come a cinquanta anni e a venti. Mentre i lineamenti di lei continuavano a cambiare a causa dei guizzi delle fiamme, lui rivide la fisionomia di tutti quegli anni, quegli stadi di vita trascorsi insieme.

— Sì — rispose lei, sorridendo al marito. — Sì, penso che ora abbiamo fatto la nostra scelta.

Don annuì, e abbassò gli occhi al menu. Avrebbe ordinato la prima cosa che notava. Eppure, lo disorientava ancora il fatto che mancassero le indicazioni in dollari.

“Tutto ha un prezzo” pensò “anche se non si vede.” 7

Don e Sarah avevano avuto un’altra discussione sul progetto SETI un anno prima che giungesse il primo segnale da Sigma Draconis. Andavano entrambi per i cinquanta; Sarah, depressa dal fallimento di tutti i tentativi, temeva di aver sacrificato la propria vita a una stupidaggine.

— Magari là fuori c’è qualcuno — aveva detto Don, durante una passeggiata serale. Qualche anno prima aveva aderito alla religione salutista, per cui ogni sera, nella bella stagione, si faceva mezz’ora a piedi; in inverno sfruttava un tapis roulant che teneva in cantina. — Solo che se ne sta in silenzio — proseguì. — Allo scopo, diciamo, di non contaminare la nostra civiltà. Direttiva Uno.

Sarah aveva scosso la testa. — No, no. Gli alieni hanno il dovere morale di farci sapere che esistono.

— Perché?!

— Perché sarebbero la prova vivente che è possibile sopravvivere all’adolescenza tecnologica. Intendo: l’epoca in cui si possiedono strumenti in grado di annientare la propria specie, e senza i meccanismi per impedirlo. Noi umani abbiamo inventato la radio nel l895 e soli cinquant’anni dopo, nel 1945, la bomba atomica. Ora, è possibile per una civiltà continuare a esistere per secoli o millenni dopo l’invenzione dell’atomica? E se a distruggerla non sarà questo, potranno sempre farlo armi basate sull’intelligenza artificiale, o sulle nanotecnologie, o sull’ingegneria genetica... a meno che non si adottino contromisure. Bene, qualunque civiltà aliena riusciremo a individuare, sarà quasi sicuramente più antica della nostra. Ricevere un segnale da loro ci darà una speranza.

— Immagino di sì — disse Don. Avevano raggiunto l’incrocio tra il Betty Ann Drive e Senlac Road. Voltarono a destra: sulla Senlac, diversamente dal Betty Ann, c’erano i marciapiedi.

— Certo che è così — aveva ribadito lei. — Questo è il succo del discorso di McLuhan: il mezzo è il messaggio. Basterà individuare un messaggio, anche senza comprenderlo, per ricevere il più prezioso degli insegnamenti.

Lui ci rimuginò. — Sai, dovremmo invitare Peter de Jager una volta o l’altra. È un pezzo che non gioco a “scenari futuribili”.

Lei s’irritò. — E adesso che c’entra?

— Bé, per che cosa è diventato famoso?

— Per il millennium bug.

— Esatto.

Peter de Jager abitava a Brampton, appena fuori Toronto. Frequentava alcuni dei circoli cui partecipavano anche gli Halifax. Nel 1993 aveva pubblicato il fondamentale articolo Doomsday 2000 sulla rivista “ComputerWorld”, in cui metteva in guardia il mondo da un possibile caos informatico allo scoccare dell’anno 2000. Peter aveva speso i sette anni successivi a diffondere l’allarme in tutti i modi e in tutte le sedi. Si spesero milioni di ore lavorative e miliardi di dollari per correggere il problema. E, quando sorse il sole del 1° gennaio 2000, non capitò nessuna catastrofe: gli aerei continuarono a volare, i conti bancari non si volatilizzarono nel nulla, e così via.

E qualcuno ringraziò Peter de Jager? No. Anzi, venne scorticato vivo. “Era un ciarlatano” dissero alcuni, tra cui il “National Post” canadese, riassumendo gli eventi principali del 2000. La prova a sostegno di questa tesi era appunto il fatto che non fosse successo niente.

Adesso Don e Sarah stavano oltrepassando la Willowdale Middle School, a cui era iscritto loro figlio Carl. — Però, che c’entra il millennium bug con il silenzio degli alieni? — domandò Sarah.

— Forse si sono accorti che sarebbe pericoloso per noi scoprire che alcune specie hanno superato incolumi l’adolescenza tecnologica. Siamo sopravvissuti al “baco” grazie al duro lavoro di un sacco di gente; ma, una volta che ne siamo usciti, ci siamo convinti che ce l’avremmo potuta fare anche senza tutti quegli sforzi. Il felice ingresso nell’anno 2000 è stato interpretato... per usare la tua espressione... come la “prova vivente” che era scontato sopravvivere. Ecco, anche la scoperta di civiltà aliene verrebbe interpretata a quel modo. Anziché pensare che superare la nostra fase storica sia una missione impegnativa, ci culleremmo nell’idea che si tratti di una passeggiata. “Se ce l’hanno fatta loro, possiamo tranquillamente farcela anche noi.” — Don fece una pausa. — Immaginiamo che degli alieni, da un pianeta che orbita intorno a... che stella simile al Sole c’è nei paraggi?

— Epsilon Indi — disse Sarah.

— Ottimo. Immaginiamo che gli Indi siano in grado di ricevere le trasmissioni TV da una stella vicina, come... mmm...

— Tau Ceti.

— Grande. Gli Indi vedono la TV di Ceti. Non che da Ceti lo facciano apposta, ma il segnale vaga nello spazio. E gli alieni di Epsilon Indi dicono: “Ehi, questi tizi si sono appena affacciati alla civiltà, come noi abbiamo fatto eoni fa. Sicuramente stanno attraversando un momento difficile, come si deduce dai loro telegiornali.

Via, contattiamoli, così sapranno che l’avventura è a lieto fine”. E che succede?

Dopo qualche decennio a Tau Ceti regna il silenzio più assoluto. Come mai?